L’Italia, paradiso delle trivelle e dei petrolieri

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Perché l’estrazione e la lavorazione degli idrocarburi rappresentano sempre una filiera fortissima e altamente remunerativa? Anche e soprattutto in Italia dove ci sono le più basse compensazioni ambientali del mondo, e un regime fiscale molto favorevole. Per i territori invece importanti danni economici, ambientali e sanitari.

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Estrarre petrolio costa meno di un vasetto di yogurt. Lo dice un ingegnere petrolifero intervistato nel libro tascabile scritto dal giornalista Pietro Dommarco per Altreconomia dal titolo “Trivelle d’Italia. Perché il nostro paese è un paradiso per i petrolieri”, che avevamo già presentato alla sua uscita.

Secondo quell’ingegnere il costo medio di estrazione di un barile greggio, al netto delle tasse, è quantificabile in 6 euro. La vendita del prodotto finito, cioè 55 litri di benzina, al prezzo attuale è di 102 euro. La fabbrica di yogurt, al netto delle tasse, guadagna quattro volte quello che spende (90 centesimi il costo al kg per una vendita a 3,60 €). La fabbrica di benzina arriva a 17. Insomma, un calcolo un po’ forzato e paradossale per dimostrare come l’estrazione e la lavorazione degli idrocarburi, anche in tempi di calo sensibile della domanda, resti una filiera fortissima e altamente remunerativa.

Una filiera che è pure incentivata dallo Stato. Dall’Italia, in particolare, che rilancia la sua voglia di idrocarburi nazionali grazie a un Ministro dello Sviluppo Economico che la propone come il suo cavallo di battaglia per uscire dalla crisi. In un Paese in cui nel 2011 si sono estratti 40 milioni di barili (84% dalla terraferma) e dove ci sono alcune norme sulle attività petrolifere tra la più permissive al mondo. Le compagnie petrolifere, spiega il volumetto tascabile di Altreconomia, sono libere di perforare la terra e i fondali marini italiani, con bassi costi e con l’avallo di leggi “tolleranti”. Inoltre le percentuali di compensazione ambientale sono tra le più basse al mondo, tanto che sono centinaia le concessioni e più di 1.010 i pozzi produttivi in Italia, tra terraferma e mare. Le royalties, quella quota di denaro che le compagnie petrolifere versano a Stato, Regioni e Comuni coinvolti nelle attività petrolifere in Russia sono dell’80%, in Alaska del 60%, in Canada del 45%, negli USA del 30%. In Italia, oltre alla tasse governative, le società cedono solo il 4% dei loro ricavi per le estrazioni in mare e il 10% per l’estrazione su terraferma. E peraltro non ci sono restrizioni al rimpatrio dei profitti. Ne avevamo parlato anche in un nostro articolo “Royalties idrocarburi in Italia: poco per pochi, niente per molti”.

“Trivelle d’Italia” racconta in 100 pagine questa realtà che ha portato pochi vantaggi al nostro territorio, scarsa occupazione e “infiniti lutti”, per i lavoratori e per l’ambiente. Un’analisi che scende in profondità e percorre numeri e storie dei piccoli Texas italiani, dalla Basilicata alla Pianura Padana, dal mare della Sicilia a Porto Marghera. Ma le prospettive sono nere: lo ricorda nella prefazione il geologo, giornalista e divulgatore Mario Tozzi, che ci spiega perché il “petrolio a buon mercato” è già finito.

Nel libro anche un’intervista alla professoressa Maria Rita D’Orsogna che insegna alla California State University di Northridge e che da diversi anni si occupa dell’impatto ambientale ed economico di questo comparto sui territori italiani. D’Orsogna spiega come accidentalmente o volontariamente gli scarti delle perforazioni finiscono in mare nel caso delle piattaforme offshore (oggi in Italia molto appetibili dalle compagnie straniere). Tra gli scarti c’è soprattutto una elevatissima concentrazione di mercurio che va poi nella catena alimentare, così come si è potuto notare in Norvegia e nel Golfo del Messico.

Un volume che riproponiamo all’attenzione dei nostri lettori e di quei rappresentanti dei comitati locali che si stanno organizzando per cercare di mettere un freno a questa corsa a trivellare il nostro territorio.

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