Petrolio dai nostri mari. Come travisare lo sviluppo

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La corsa al petrolio nei nostri territori e mari è stata spianata dal Ministro dello Sviluppo Economico che, se da una parte guarda con sospetto le rinnovabili, dall'altra considera un fattore positivo il rilancio della produzione di idrocarburi nazionale, con decine di trivelle in mare. Una concenzione dello sviluppo da inizio '900.

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Questa mattina, davanti alla più grande piattaforma petrolifera off-shore italiana, Vega-A, gli attivisti di Greenpeace hanno aperto uno striscione galleggiante con la scritta: ‘Meglio l’oro blu dell’oro nero’. La piattaforma, che opera su una concessione Edison-Eni, si trova di fronte alla costa meridionale della Sicilia, al largo di Pozzallo.

Siamo di fronte a un’ambigua interpretazione di sviluppo e di crescita di una parte della nostra classe dirigente. Il ministro Passera e le politiche energetiche del suo dicastero mettono i bastoni tra le ruote alle rinnovabili e all’efficienza energetica, settori in rapido sviluppo, intralciandole con pastoie burocratiche e vincoli, mentre provano a spianare la strada alla corsa al petrolio e al gas sui nostri territori e nei nostri mari. In buona compagnia del ministro c’è anche Confindustria che, nella sua personalissima strategia energetica nazionale, vede le fonti pulite come un settore da controllare e invece i mari e i territori nazionali da trivellare “per rilanciare la produzione nazionale di idrocarburi”.

Oggi nei mari italiani sono attive 9 piattaforme di estrazione petrolifera ma – grazie ai colpi di spugna normativi dell’ultimo anno, a partire da quello previsto dal recente decreto Sviluppo (art. 35), promosso dal ministro Passera e in via di approvazione definitiva dal Parlamento –  si potrebbero aggiungere almeno altre 70 trivelle, ha denunciato Legambiente che ha presentato ‘Trivella selvaggia’, il nuovo dossier sui numeri e i rischi della ricerca dell’oro nero per le coste italiane. Il Decreto Sviluppo da una parte aumenta a 12 miglia la fascia di divieto per le nuove richieste di estrazione di idrocarburi a mare e dall’altra fa ripartire tutti i procedimenti autorizzativi per la prospezione, ricerca ed estrazione di petrolio che erano stati bloccati dal decreto legislativo 128/2010, approvato dopo l’incidente alla piattaforma Deepwater Horizon nel golfo del Messico.

I dati di Legambiente, elaborati sulla base dei numeri pubblicati sul sito del Ministero dello Sviluppo economico, indicano un quadro allarmante che rischia di ipotecare seriamente il futuro del mare italiano e delle attività economiche connesse, a partire dal turismo di qualità e dalla pesca sostenibile, con rischi di incidenti che non vale la pena di correre, a maggior ragione considerando i quantitativi irrisori presenti nei fondali marini italiani.

Attualmente, 10.266 km2 di mare italiano sono oggetto di 19 permessi di ricerca petrolifera già rilasciati e 17.644 km2 di mare minacciati da 41 richieste di ricerca petrolifera non ancora rilasciate, ma in attesa di valutazione e autorizzazione da parte del Ministero dello Sviluppo economico. Dunque, spiega Legambiente, tra aree già trivellate e quelle che a breve rischiano la stessa sorte, si tratta di circa 29.700 km2 di mare, una superficie più grande di quella della regione Sardegna.

La verità è che le ultime stime del Ministero dello Sviluppo economico sulle riserve nazionali (aggiornate a dicembre 2011) indicano come ‘certa’, la presenza nei fondali marini di solo 10,3 milioni di tonnellate di petrolio che, ai consumi attuali, sarebbero sufficienti per il fabbisogno nazionale per sole 7 settimane. Se guardiamo invece al totale delle riserve certe, comprese quelle presenti a terra, concentrate soprattutto in Basilicata, scopriamo che verrebbero consumate in appena 13 mesi.

Tanto rischio per ottenere cosa, a parte qualche significativo beneficio per le compagnie petrolifere? Lo stesso Ministero nel Rapporto annuale 2012 della sua Direzione generale per le Risorse minerarie ed energetiche scrive: “Il rapporto fra le sole riserve certe e la produzione annuale media degli ultimi cinque anni, indica uno scenario di sviluppo articolato in 7,2 anni per il gas e 14 per l’olio”. Insomma, un’ipotesi di breve respiro.

Tornando alla piattaforma Vega, va detto che Eni è proprietario per il 40% di questa installazione e del campo petrolifero, ma la stessa Eni opera in altre due piattaforme al largo di Gela per un totale di 33 pozzi attivi. Altro aspetto da considerare che, nel 2011, Eni ed Edison hanno versato alla Sicilia meno di un milione e mezzo di euro di royalties per la produzione complessiva sia a terra che in mare di gas e petrolio. Inoltre il canone delle concessioni in mare è irrisorio e va solo allo Stato. Si stima “che le compagnie abbiano pagato poco più di 48mila euro per una superficie estrattiva di quasi 700 chilometri quadrati”, ha detto Greenpeace.

I cittadini possono seguire il tour on line di Greenpeace sul sito www.notrivelletour.org e aderire alla petizione per chiedere al proprio Sindaco di sottoscrivere l’appello rivolto al ministro dell’Ambiente.

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