Quei chilowattora sporchi e il loro prezzo in vite umane

I costi sanitari della produzione di elettricità vengono raramente conteggiati nel costo dell'energia, ma pesano sul bilancio sociale. Numerose ricerche provano a valutare le esternalità e le conseguenze sulla salute. Diversi i metodi e i parametri, ma su un punto sembra esserci accordo: è il carbone il killer numero uno.

ADV
image_pdfimage_print

Il mondo ha bisogno di energia. Soprattutto se vogliamo sradicare la povertà a livello globale, come le Nazioni Unite si sono nuovamente impegnate a fare, in occasione della Conferenza sullo sviluppo sostenibile tenutasi il mese scorso a Rio de Janeiro. Ma aumentare la produzione di energia ha effetti che, se non si elabora un giusto e bilanciato mix energetico, possono diventare un costo gravoso a livello sociale e sanitario.

Entro la metà del secolo si prevede che globalmente i consumi di energia raddoppieranno. Questa stima deriva dal previsto aumento della popolazione mondiale e dalla speranza di rendere l’energia accessibile anche a quel miliardo e 600 milioni di persone che al momento non ne dispone. Mediamente l’essere umano ha bisogno di 3.000 kWh all’anno per condurre una vita dignitosa. Questo, secondo stime riportate dalla rivista Forbes, significa che, per eliminare povertà, guerra e terrorismo, andrebbero prodotti 1.000 miliardi di kWh all’anno.

La scelta delle fonti su cui puntare è cruciale. Irena l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di rinnovabili ha di recente fornito un stima dei costi per chilowattora delle varie fonti: la fonte più costosa è il sole con 0,25-0,65 $ a chilowattora, mentre la più economica sarebbe l’idroelettrica che riesce a produrre in certi impianti con solo 2 centesimi per chilowattora (mentre in altri arriva fino a 19). Il carbone risulta più economico di quasi tutte le altre fonti fossili e di tutte le rinnovabili tranne l’idro. Costi medi LCOE (levelized energy cost), calcolati su tutto il ciclo di vita di un impianto, prendendo in considerazione anche spese di installazione e materiali, ma che tralasciano le cosiddette esternalità, quei costi nascosti legati all’inquinamento e alle problematiche sanitarie a questo connesse.

Nel corso del dibattito sulla tassazione delle emissioni di CO2, si è discusso a lungo della possibilità di assegnare un’impronta ecologica standardizzata alle diverse fonti energetiche. Un compito che presenta non poche contraddizioni: l’impatto del singolo impianto, infatti, andrebbe valutato in base all’area in cui questo viene realizzato. A seconda dell’importanza e della sensibilità dello specifico ecosistema (uomo incluso) con cui le attività di produzione energetica interagiscono, la valutazione dell’impronta ecologica di una fonte potrebbe variare sensibilmente. Quello che si può fare è valutare la quantità media (ma anche in questo caso va detto che, a seconda della zona e del tipo di impianto, le differenze possono essere vistose) di inquinanti generata dal processo produttivo per le diverse fonti: sappiamo, per esempio, che la produzione di energia da carbone comporta l’emissione in atmosfera di 900 grammi di CO2 per kWh, mentre vento e nucleare sono responsabili dell’emissione di appena 15 grammi di CO2.

A partire dai dati sulle emissioni, si può fare un ulteriore passo per calcolare i costi reali delle fonti energetiche. In altri termini si può cercare di valutare il danno, ovvero, brutalmente, contare i morti. Alcuni lo chiamano deathprint ed è il prezzo, in termini di vite umane, della produzione di energia. È un indice di mortalità che misura il numero di decessi (per malattie respiratorie e per alcuni tipi di tumori) per kWh prodotto dalle diverse fonti energetiche, combinando le morti dirette e le stime epidemiologiche.

I risultati coincidono con quelli che si ottengono quando si misura l’impronta ecologica: il killer numero uno è il carbone. Per ogni mille miliardi di chilowattora prodotti, il carbone, da cui si produce il 50% dell’elettricità del mondo, fa 170.000 morti (280.000 in Cina, contro 15.000 in America, soprattuto come risultato della regolamentazione delle emissioni introdotta dal Clean Air Act), il petrolio ne fa 36.000, mentre biofuel e biomasse si attestano a 24.000. Si scende sensibilmente quando si passa al gas naturale che, producendo un 20% dell’elettricità mondiale, fa 4.000 morti. Passando alle rinnovabili, sono 1.400 i decessi provocati dall’idroelettrico, 440 quelli del solare e 150 quelli dell’eolico (numeri, questi, legati ai rischi che si corrono in fase di installazione. Per il solare, gli incidenti si verificano soprattuto nel caso di impianti su tetto). Ma, nonostante i disastri di Chernobyl e Fukushima, sembrerebbe essere il nucleare, con appena 90 morti per ogni mille miliardi di chilowattora prodotti, la fonte con meno vittime sulla coscienza. La ragione di questo risultato è dovuta a una questione di proporzioni: il nucleare produce grosse quantità di energia per singolo impianto e il numero di centrali è limitato. Va ricordato tuttavia che uno studio pubblicato da Greenpeace nel 2006 indica che, sulla base delle statistiche oncologiche nazionali della Bielorussia, i casi di cancro dovuti alla contaminazione di Chernobyl nei 70 anni successivi all’incidente sono stimati in 270mila, di cui 93mila letali. Va detto inoltre che una valutazione complessiva dei rischi legati al nucleare, considerati i lunghissimi tempi di persistenza delle contaminazioni oltre che delle scorie, non può ancora essere fatta.

I numeri sopra riportati sono il risultato di diversi studi, messi insieme (qui) da Brian Wang, direttore di nextbigfuture.com, uno dei portali scientifici più famosi negli USA. Ma all’argomento sono state dedicate parecchie ricerche e molti sono i tentativi di assegnare un numero al tasso di mortalità legato alle varie fonti energetiche. È stato pubblicato nel 2005 ExternE, uno studio della Commissione Europea (v. pdf allegato) che valuta le esternalità della produzione di energia considerando tutti gli inquinanti emessi dai vari tipi di impianti e valutandone in dettaglio le conseguenze sanitarie.

Più recente e molto completo, ma riferito al solo scenario americano, è il rapporto “Hidden Costs of Energy, unpriced consequences of energy production and use” della National Academy of Science, che assegna un valore economico alle esternalità e ai costi sanitari delle emissioni. “Nel determinare il nesso tra emissioni e conseguenze sanitarie bisogna fare una distinzione di base – ci spiega James Hammitt,  uno degli autori della ricerca. – Infatti, la CO2 ha pochi o nulli effetti sulla nostra salute, se non per il fatto che condiziona il clima e questo può, sul lungo termine, influenzare la salute, ma questi effetti sono difficilmente quantificabili. Le emissioni che invece vanno direttamente a influire sulla salute dell’uomo sono soprattuto quelle di particolato, diossine,  mercurio”.

Anche Greenpeace da tempo si occupa delle conseguenze sanitarie della combustione delle fonti fossili, con una particolare attenzione al carbone cui è dedicato un rapporto pubblicato lo scorso aprile, secondo cui il carbone usato in Italia da Enel per produrre elettricità costerebbe al nostro Paese un morto al giorno. “Gli inquinanti che giocano un ruolo chiave nel provocare le morti che il nostro rapporto denuncia sono il particolato fine (PM 2.5) e l’ozono. – ci dice Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia – Il modello che abbiamo utilizzato non considera invece una serie di elementi su cui non c’è la stessa solidità in termini di relazione quantitativa tra esposizione e danno. Quindi esclude ossidi di azoto e di zolfo come gli idrocarburi, anche se le centrali termoelettriche emettono grosse quantità di questi inquinanti: le emissioni annue di ossido di azoto della centrale di Porto Tolle, per esempio, equivalgono a quelle di tre milioni e mezzo di auto che fanno 10.000 chilometri all’anno. Nel nostro rapporto la stessa centrale viene ritenuta responsabile di 66 morti premature all’anno”.

Il problema è tutt’altro che locale perché la caratteristica di inquinanti come il particolato sottile è quella di spostarsi su ampi raggi ed è l’esposizione a sorgenti lontane a creare più problemi. “Quando valutiamo gli effetti di una centrale alla foce del Po dobbiamo prendere in considerazione un’area che arriva fino a Milano. Sull’intero parco Enel il carbone può essere considerato responsabile di 13 morti per terawattora (contro i 4 del gas). Se consideriamo solo gli impianti nuovi, che usano tecnologie più avanzate, i decessi sono tra 5 e 6 per terawattora per il carbone, mentre si scende al di sotto dell’unità per il gas”. Non sono i numeri della più popolosa e meno regolamentata India dove, secondo una recente dichiarazione della presidente del Fondo Monetario Internazionale, ogni anno morirebbero 70.000 persone a causa del carbone, ma sono comunque numeri su cui riflettere, dal momento che esistono alternative più sicure. 

ADV
×