I sussidi alle fonti fossili e la soglia dei 2 gradi

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Secondo Fatih Birol dell’International Energy Agency, il motivo per cui le emissioni di CO2 sono in continua crescita a livello mondiale è da ricercare nei sussidi alle fonti fossili: 630 miliardi di $ nel 2012. La IEA chiede di tagliarli subito e di investire nella riduzione dei gas serra. Contenere la temperatura sotto i 2 °C è ormai un'impresa.

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“Il motivo principale per cui le emissioni di CO2 sono in continua crescita a livello mondiale è da ricercare nei sussidi alle fonti fossili”. A dirlo è Fatih Birol, capo economista dell’International Energy Agency, un’evidenza che viene stressata  nuovamente dall’Agenzia con dati più aggiornati. Nel 2012, spiega la IEA, saranno spesi 630 miliardi di dollari di sussidi alle fonti fossili, pari a circa lo 0,7% del Pil mondiale. Metà di questi provengono dal Medio Oriente. Erano stimati in 400 miliardi di dollari solo due anni fa. “Stiamo andando indietro”, dice Birol, che solo l’anno scorso stimava che questa cifra si sarebbe forse toccata entro il 2020.

Secondo la IEA ora è necessario fare pressione sui Governi per tagliare gradualmente i sussidi. Eliminarli entro il 2020 significherebbe ridurre la domanda di energia mondiale del 4% e di conseguenza ridurre la crescita delle emissioni di gas serra. Agli osservatori sembra comunque improbabile che questo obiettivo, indicato nel G20 del 2009 e che sarà riproposto nel vertice di Rio+20 (20-22 giugno), possa trovare d’accordo la maggior parte dei Paesi.

Il punto è che nessuna leadership mondiale ha ancora l’autorevolezza di spingere la comunità mondiale verso un cambio di rotta sul terreno del clima e dell’energia. La stessa Agenzia, attraverso il suo capo economista, ritiene ormai che la possibilità di limitare l’aumento della temperatura globale sotto i 2 gradi centigradi è ridotta al lumicino. Basterebbe guardare agli investimenti in corso per impianti energetici a fonti fossili per capire che quella triste soglia è alla portata dell’umanità. La IEA lo scorso anno aveva dichiarato che circa l’80% delle emissioni connesse a impianti di produzione energetica e industriale, accettabili ai fini degli obiettivi climatici indicati a Copenhagen, era già in cantiere.

Un rapporto del Club di Roma pubblicato questo mese ha stimato che l’incremento delle emissioni provocherà un aumento della soglia dei 2 gradi entro il 2052 e di 2,8 °C entro il 2080.

La crisi mondiale e gli interessi dei grandi produttori di CO2 – gli energetici, le compagnie automobilistiche e l’industria pesante – stanno frenando da anni questo processo che trova la sua vetrina solo nei grandi summit sul clima, spesso poi svuotati di contenuto da decisioni che rimandano sine die i necessari e profondi cambiamenti al nostro modello economico e produttivo.

Pensavamo che il fatto di battere sull’aspetto economico positivo delle azioni rivolte alla riduzione delle emissioni di CO2 avesse potuto destare dalla passività l’inadeguata classe politica mondiale. A più riprese allora si è ricordato ai Governi di quel “Rapporto Stern” del 2006, che perfino lo stesso autore, l’economista britannico Nicholas Stern, lo scorso anno ha considerato superato, visto che il costo per combattere i cambiamenti climatici è cresciuto rispetto a quanto aveva potuto stimare nel suo lavoro di 6 anni fa. La voce si alza anche dai quei “no global” della IEA: “un dollaro non investito ora nella riduzione della CO2 per avere lo stesso effetto costerà 4,6 $ nel prossimo decennio”, ha detto Fatih Birol. Ma non crediamo che questo possa spostare di una virgola l’azione delle politiche nazionali e globali che, schiacciate sulla crisi di oggi, nel loro orizzonte hanno sempre pochi mesi. E se la crisi di oggi fosse invece solo l’avvisaglia di quella, più profonda, di domani?

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