Le banche che mettono ‘carbone’ sul fuoco climatico

Investire ancora nelle fonti fossili vuol dire perdere la battaglia per contenere i danni del global warming. Ma le banche continuano a puntare forte sulla fonte peggiore per il clima, il carbone. E' quanto mostra un nuovo report. Il risultato è un mix esplosivo di rischio non solo per il clima, ma anche per la finanza mondiale.

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Qualcosa proprio non quadra. Da una parte è evidente che investire ancora nelle fonti fossili vuol dire andare incontro ad un disastro climatico. Dall’altra i grandi della finanza continuano a scommettere decine di miliardi di dollari sulla fonte peggiore per il clima, il carbone. Il risultato è un mix esplosivo di rischio ambientale e finanziario: forse è già troppo tardi per scegliere tra un fallimento sul piano della lotta al global warming – nel caso gli investimenti delle banche andassero a buon fine e le centrali a carbone finanziate riuscissero a funzionare per il loro ciclo di vita – e una grossa bolla di investimenti, che scoppierà se le politiche per il clima impediranno alle fonti fossili di ripagare i finanziatori.

La prima affermazione, cioè che per evitare gli effetti peggiori del riscaldamento globale bisogna fermare immediatamente gli investimenti in fonti fossili, non viene da un’associazione ambientalista, ma dalla International Energy Agency. Nell’ultimo World Energy Outlook infatti si mostra come quattro quinti della quantità di emissioni massima per rimanere entro la soglia critica dei 2 °C sono già allocati dallo stock di capitale esistente, ossia impliciti in centrali industrie e altre infrastrutture in fase di realizzazione. Se entro il 2017, scrive l’Agenzia, non si farà inversione ci saremo già giocati la possibilità di contenere le emissioni abbastanza per tenere la concentrazione della CO2 sotto le 450 ppm, e dunque di fermare l’aumento della temperatura entro i 2 °C.

Quanto al secondo punto, è appena uscito un report che documenta ampiamente come e quanto le più grandi banche del mondo stiano investendo nel carbone: si intitola Bankrolling Climate Change. E’ stato realizzato da una rete internazionale di ONG (la tedesca Urgewald, le sudafricane GroundWork e Earthlife Africa Johannesburg e il network internazionale BankTrack) e analizza gli investimenti di 93 tra le più grandi banche del mondo. Lo studio mostra come la finanza, al di là della mano di verde data alla facciata, il cosiddetto greenwashing, stia puntando ancora pesante sul nero, ossia sull’estrazione di carbone e sulle centrali.

Come si vede dai grafici (vedi in fondo) i nomi sono importanti e i numeri alti, anche se probabilmente sottodimensionati: si basano infatti solo sui dati consultabili pubblicamente. E la somma complessiva è in aumento negli ultimi anni (grafico qui sotto).

D’altra parte il carbone, questa fonte “del passato”, è tutt’altro che in declino: negli ultimi dieci anni ha soddisfatto quasi la metà dell’aumento della domanda di energia (1200 Mtep contro poco più di 1400 di tutte le altre fonti sommate, vedi grafico). In Europa – dicono i dati di Greenpeace – oltre un centinaio di nuove centrali sono in fase di progettazione o di realizzazione. In India 173 hanno già ricevuto il via libera per la costruzione, pari ad un aumento del 600% della potenza da carbone e in Cina se ne stanno realizzando circa due a settimana. Beffa aggiuntiva: parte di queste nuove centrali potrebbero ricevere aiuti destinati alla lotta al global warming (si veda qui), mentre procedendo a questo ritmo la Cina nel 2030 avrà emissioni di CO2 pari a quelle odierne dell’intero pianeta.

Non c’è bisogno di elencare le altre controindicazioni del carbone (ad esempio inquinamento e danni alla salute,  il 7% del Pil nel 2007 in Cina e 30mila morti premature all’anno negli Usa) per capire che la finanza – investendo in miniere di carbone e centrali – sta mettendo la benzina nel motore di una macchina fuori controllo.

Un problema che dovrebbe far insorgere gli azionisti di quelle stesse banche che stanno finanziando il carbone e le altre fossili. E non solo per il contributo al disastro climatico: gli investimenti in energie fossili infatti rischiano di essere anche un enorme boomerang economico, capace di far scoppiare una bolla paragonabile a quella dei mutui subprimes.

Il perché lo spiega un altro report, di Carbon Tracker Initiative, di cui abbiamo parlato nei mesi scorsi. In sintesi, una quantità enorme di denaro è impegnata in carbone, petrolio e gas che in un non così lontano futuro probabilmente non potranno essere estratti e bruciati. Investimenti spesso a medio e lungo termine compiuti anche da grandi fondi pensione e Stati senza guardare al quadro macro della situazione: con le politiche necessarie a limitare il riscaldamento globale, circa l’80% delle riserve su cui si è finora investito non potrà essere sfruttato.

Per ragionare con dei numeri forniti da CTI: le riserve in possesso delle 100 più grandi compagnie quotate nel carbone e delle 100 del petrolio ammontano ad un equivalente in CO2 di 745 Gt: 180 in più di quello che potremo bruciare fino al 2050 per stare sotto ai 2 °C. In aggiunta ci sono anche le riserve di proprietà degli Stati: ne emerge che di tutte le riserve controllate dalle grandi compagnie quotate, si potranno usare solo gas, carbone e petrolio per l’equivalente di 149 Gt CO2, ossia circa un quinto.

“Questo significa – denuncia lo studio – che governi e mercati globali stanno trattando come asset riserve che sono 5 volte il budget che si potrà usare nei prossimi 40 anni. Le conseguenze di poter usare solo il 20% di queste riserve non sono ancora state considerate”. Gli investitori sono esposti al rischio di possedere asset di “carbonio che non si può bruciare” che potrebbero subire una pesante svalutazione. Dato che la capitalizzazione legata alle risorse fossili su varie Borse ha un ruolo molto importante (20-30% in Borse come quella australiana, Londra, Mosca, Toronto e San Paolo), le conseguenze a catena per l’economia mondiale potrebbero anche essere catastrofiche.

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