Le scorie Usa e il deposito chiamato desiderio

CATEGORIE:

La questione dello stoccaggio delle scorie negli Stati Uniti resta irrisolta. Obama, dopo l'elezione, ha bloccato il progetto del sito nazionale della Yucca Mountain e oggi le 62.500 tonnellate di materiale radioattivo restano in depositi temporanei. Ma il nucleare non esce dallo scenario energetico Usa, anche se è al palo.

ADV
image_pdfimage_print

Nel corso di cinquanta anni di attività, l’industria nucleare americana ha prodotto 62.500 tonnellate di scorie. Sono l’effetto collaterale dell’attività di 104 centrali nucleari che rappresentano il 20% della capacità di generazione elettrica del paese e il 70% dell’elettricità prodotta da fonti non fossili. Questo materiale radioattivo (combustibile esausto, in termini politicamente corretti), è al momento conservato in loco, in piscine o contenitori stagni all’interno delle stesse centrali. Una soluzione provvisoria che è da tempo oggetto di dibattito.


Nel 1982 il Congresso degli Stati Uniti aveva dato incarico al Dipartimento dell’Energia di realizzare, entro il 1998, un sito sotterraneo di stoccaggio permanente delle scorie che potesse servire tutte le centrali della nazione. A questo scopo era stato creato il Nuclear Waste Fund che, con soldi prelevati dalla bolletta elettrica dei cittadini americani, doveva servire a finanziare il progetto. Dopo anni di studi, nel 2002, l’amministrazione Bush aveva approvato un progetto per la costruzione del sito di stoccaggio nazionale nell’area della Yucca Mountain, una zona semidesertica nello stato del Nevada, a circa due ore di macchina da Las Vegas. Il piano aveva però incontrato l’opposizione degli abitanti dell’area che avevano trovato appoggio in Barack Obama, durante la campagna elettorale per le presidenziali 2008.


Per questo, una volta eletto, il presidente ha, come promesso, bloccato il piano della Yucca Mountain. Non avendo il potere di revocare il progetto senza il parere del Congresso, Obama ha semplicemente bloccato i fondi a partire dalla primavera del 2011, con l’effetto di congelare il sito. L’amministrazione ha spiegato la decisione dicendo che la costruzione del deposito era controversa e che non sarebbero mai state superate le opposizioni locali.  


E tuttavia un paese che decida che il nucleare debba fare parte del proprio mix energetico, da qualche parte dovrà pur mettere le scorie. “Abbiamo certamente bisogno di un deposito nazionale – ci spiega Peter Bradford, docente di Energia nucleare e politiche pubbliche alla Vermont Law School del Vermont ex membro della Nuclear Regulatory Commission e attuale vice presidente del consiglio della Union of Concerned Scientists – Ma lo sforzo di infilare le scorie in Nevada è stato fin dall’inizio guidato dall’incauto tentativo di anteporre la politica alla scienza. Un approccio che meritava di fallire”.


La Nuclear Regulatory Commission ha stabilito che lo stoccaggio in loco nelle centrali sia da considerarsi sicuro per almeno 120 anni, ma non è certo una soluzione definitiva e non risolve il problema di un materiale la cui radioattività non si esaurisce prima di diverse decine di migliaia di anni.


Lo scorso gennaio il Dipartimento dell’Energia ha creato una commissione ad hoc incaricata di elaborare una serie di raccomandazioni sulla gestione dei rifiuti radioattivi. Il rapporto definitivo dovrebbe essere pubblicato entro 18 mesi dalla data di creazione della commissione, ma una prima serie di raccomandazioni (pdf) è già stata resa nota a luglio.   


La strategia proposta, articolata in sette punti, è focalizzata sulla necessità di creare un consenso generale intorno al nucleare e alla localizzazione dei siti di stoccaggio, attraverso un approccio orientato a garantire la massima sicurezza ai cittadini. Ma poco viene detto per quello che riguarda come e dove conservare le scorie radioattive.


Sul tavolo c’è anche l’opzione di utilizzare tecnologie per riciclare il combustibile esausto recuperando valore energetico e allo stesso tempo riducendo il carico di radioattività del materiale. Anche con questo metodo, tuttavia, rimarrebbe comunque una razione di materiale radioattivo da stoccare in modo definitivo.


Secondo Jack Grobe, membro della Nuclear Regulatory Commission, “Non si tratta di una questione di sicurezza perché lo stoccaggio nelle piscine per il combustibile esausto è sicuro così come è sicura la conservazione del materiale nei dry cask, dove è permesso mettere solo combustibile che è stato nelle piscine per più di 5 anni. Le maggiori preoccupazioni in termini di sicurezza riguardano il combustibile che è stato fuori dal reattore solo per uno o due anni. Ma nella prospettiva della produttività sul lungo periodo dell’industria nucleare, è innegabile che sia importante avere un deposito permanente. Secondo il nostro parere, da un punto di visita tecnologico, non c’erano controindicazioni per Yucca Mountain. Ma per motivi politici il Governo ha deciso di fare un passo indietro e avere uno sguardo più ampio sulle opzioni disponibili”.


Il dibattito sulle scorie non sembra tuttavia mettere in discussione il futuro nucleare degli USA. L’atomo resta nello scenario energetico americano ed è parte del mix che dovrebbe portare il paese verso un’economia a ridotte emissioni di gas serra. Il Congresso ha finanziato un programma da 18,5 miliardi di dollari per supportare la costruzione di nuovi reattori. E tuttavia l’euforia del rinascimento nucleare invocato dai tempi di Bush, si è scontrata con un’industria in difficoltà di fronte a un investimento ad alto rischio.


Dei 27 reattori per cui era stata fatta richiesta alla Nuclear Regulatory Commission, in teoria ne sono rimasti in corsa 20 e tutti, con l’eccezione di due progetti, sono fermi o in estremo ritardo. “Già prima di Fukushima non stavamo per assistere a un rinascimento nucleare negli Usa e certamente non succederà ora – riprende Peter Bradford – Che il Governo investa per costruire qualche centrale nucleare sarebbe accettabile se questi reattori  fossero parte di un più largo accordo che includa uno sforzo reale per combattere i cambiamenti climatici come per esempio una tassa sulle emissioni o il cap and trade. Se ne potrebbe parlare a condizione che il nucleare arrivasse a prezzi competitivi, non semplicemente nel budget, come piace dire all’industria. Ma pagare per il nucleare fuori da un accordo quadro sui cambiamenti climatici non ha alcun senso. Inoltre combattere il climate change con l’energia nucleare, quando ci sono tante opzioni meno costose a disposizione, è come combattere la fame nel mondo col caviale. Altre risorse, e soprattutto l’efficienza, farebbero molto di più a costi molto più bassi”.


Per approfondire: Stato dello stoccaggio di combustibile nucleare negli Stati Uniti


credit photo: www.flickr.com/photos/abraysive/ 

ADV
×