Le fossili non si salvano dai cambiamenti climatici

L’uso delle fonti fossili è causa dei cambiamenti climatici, ma alla fine da questi è anche penalizzato. I sistemi elettrici fondati sui combustibili fossili sono minacciati dall’aumento dei rischi associati agli eventi meteorologici estremi. Le politiche energetiche dovranno prendere in considerazione sempre più questi aspetti.

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Sappiamo che l’uso delle fonti fossili nella produzione di energia elettrica è la principale causa dei cambiamenti climatici. Per una lungimirante strategia di politica energetica, sarebbe tuttavia opportuno valutare anche gli effetti potenziali dei cambiamenti climatici sull’efficienza di queste filiere industriali. La variazione delle condizioni climatiche e l’aumento del rischio associato a eventi meteorologici di intensità estrema possono comportare danni alle centrali di produzione elettrica e alle infrastrutture di approvvigionamento dei combustibili fossili che le alimentano, di entità tale da minacciare la sicurezza dei sistemi di erogazione di energia elettrica e le economie che ne traggono beneficio.

Il rapporto Climate change, disasters and electricity generation (pdf), finanziato dallo UK Department for International Development (DFID) nell’ambito del programma Strengthening Climate Resilience (SCR) through Climate Smart Disaster Risk Management, ha il merito di aver affrontato l’argomento e proposto in chiave insolita, ma utile alla pianificazione, i legami tra variazione del rischio catastrofi associato ai cambiamenti climatici e sistemi di generazione elettrica.

Considerando le diverse opzioni per fonte primaria (fossili, nucleare, idroelettrico e altre rinnovabili), ne sono state esaminate le vulnerabilità con l’obiettivo di ricavare informazioni utili per l’ottimizzazione delle strategie di adattamento ai cambiamenti climatici.

Il quadro che emerge dal rapporto è significativamente allarmante per i sistemi elettrici alimentati dalle fonti fossili, in particolare nei Paesi in via di sviluppo e in rapida crescita economica, anche a causa della generalizzata forte dipendenza dei sistemi elettrici nazionali da tali fonti (condizione peraltro comune a molti Paesi sviluppati, per es. l’Italia). I cambiamenti climatici e il rischio aumentato di eventi estremi possono colpire questa tipologia di produzione di energia elettrica in quattro modi.

In primo luogo, attraverso tempeste, inondazioni, precipitazioni violente e innalzamento del livello dei mari, manifestazioni che per il previsto incremento di intensità e frequenza sono in grado di arrecare danni ingenti alle centrali di produzione. Del resto, conferme in merito all’attendibilità scientifica delle previsioni sulle tendenze climatiche in atto giungono di continuo (buona ultima quella sul tasso di innalzamento accelerato negli ultimi due secoli del livello dei mari, Climate related sea-level variations over the past two millennia). Rischi analoghi sono condivisi anche da impianti alimentati da altre fonti e devono essere opportunamente considerati nella localizzazione di nuovi insediamenti produttivi (raccomandazione valida in particolare per i Paesi con grande sviluppo costiero e per gli Stati insulari).

Un secondo motivo di apprensione per la sicurezza delle centrali alimentate a fonti fossili è portato dalla probabilità di stress idrico diffuso. L’aumento della temperatura atmosferica, la riduzione delle precipitazioni piovose e l’aumento della severità e della frequenza di periodi siccitosi possono obbligare alla riduzione della produzione elettrica per carenza di acqua di raffreddamento agli impianti. Problemi di questo stesso tipo possono ricorrere in tutte le centrali di potenza termiche, anche in quelle nucleari come dimostra il caso estremo di Fukushima dove, per cause totalmente diverse da quelle in esame, la mancanza di acqua dolce per il raffreddamento ha causato la disastrosa parziale fusione del combustibile nucleare. Senza arrivare a situazioni limite, il manifestarsi delle condizioni di scarsità idrica può favorire lo shut-down temporaneo dei reattori per ragioni di sicurezza. E’ già accaduto in Francia nel bel mezzo delle ondate di calore estive degli anni 2003, 2006 e ancora nel 2009 quando il governo fu costretto a compensare con le importazioni di energia elettrica il venir meno di 8 GW di potenza nucleare. Altri casi noti sono stati rilevati in Germania.

I cambiamenti climatici minacciano la produzione elettrica da fossili anche semplicemente in relazione alla diminuzione dell’efficienza termica del processo di generazione indotta dall’aumento di temperatura atmosferica. Questo è il terzo modo di condizionamento in negativo.

Quanto al quarto, sono di nuovo in primo piano gli eventi meteorologici estremi. Tempeste tropicali, cicloni e uragani sono attesi in alcune regioni, peraltro spesso ospitanti coltivazioni petrolifere offshore, con intensità e frequenze più elevate e comporteranno rischi in aumento per le eventuali infrastrutture di approvvigionamento dei combustibili fossili incontrate. Per questi aspetti, il più drammatico esempio è costituito dall’impatto degli uragani Katrina, Rita e Ivan (2004-5) sulle infrastrutture energetiche del Golfo del Messico. In quella circostanza si verificarono i maggiori danneggiamenti alle strutture petrolifere mai registrati nella regione: 126 piattaforme di produzione furono distrutte e 186 gravemente danneggiate. Oltre a pesanti perdite economiche complessive (1,3-4,5 miliardi di dollari), circa 20 centrali elettriche alimentate a olio combustibile e localizzate in prossimità dell’area colpita si trovarono a fronteggiare limitazioni nella disponibilità della materia prima.

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