La via danese per liberarsi dalle fonti fossili

La Danimarca lo scorso autunno ha deciso di volersi liberare completamente dai combustibili fossili entro il 2050, puntando su efficienza, rinnovabili e veicoli elettrici. Ma la cura di disintossicazione da petrolio e affini è iniziata con la crisi del '73 e ha dato e darà al paese nord europeo anche notevoli benefici economici.

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“Con la popolazione mondiale in crescita e le economie emergenti che si espandono rapidamente, la domanda di energia e la competizione per averla sarà sempre più forte. Ciò provocherà probabilmente un aumento dei prezzi del petrolio e delle altre fonti fossili, risorse limitate e concentrate in un pochi paesi politicamente instabili. L’International Energy Agency prevede che il fabbisogno energetico mondiale aumenti del 34% entro 2035. In Danimarca abbiamo deciso che non vogliamo partecipare a questa gara per l’energia“.


Inizia così un post sul blog del World Resorces Institute dedicato all’energia, scritto da Anders Østervang, dell’ambasciata danese a Washington. Un intervento che ci dà l’occasione per tornare a parlare della politica energetica di uno degli Stati più lungimiranti: la Danimarca, che prevede entro il 2050 di liberarsi completamente dalle fonti fossili, cioè non solo per la produzione elettrica, ma anche per trasporti e per il suo fabbisogno termico.


Come la Danimarca intenda raggiungere questo obiettivo lo abbiamo già spiegato su quest sito (Qualenergia.it, Fossili zero, la Danimarca ha un piano). Per portare la quota delle fonti fossili nel proprio mix energetico dall’attuale 80% circa a zero nel 2050 e ridurre così le emissioni fino all’80-95% rispetto ai livelli del 1990, serve una “riconversione totale del sistema energetico”. I pilastri del piano: eolico, biomasse, smart grid, efficienza energetica (-25% sui consumi) ed elettrificazione dei trasporti (l’elettricità passerebbe dal 20 al 70% del fabbisogno totale); il nucleare non è invece previsto e la cattura e stoccaggio della CO2 sarà adottata solo se diventerà economicamente conveniente.


Ma la visione lungimirante della Danimarca non nasce con lo studio governativo di ottobre e l’obiettivo fossili zero al 2050. L’aspetto interessante dell’articolo di Østervang è proprio per il fatto che racconta come si è arrivati a questa nuova politica energetica. Tutto ha inizio con lo shock petrolifero degli anni ’70, spiega: da quel momento la Danimarca ha iniziato a riformare il suo sistema energetico all’insegna dell’efficienza.


“Siamo entrati nella crisi del ’73 con una dipendenza dal petrolio estero di quasi il 95%. Da allora abbiamo cercato di liberarcene concentrandoci sull’efficienza e il risparmio energetico, sia nel residenziale che nell’industria, sulle esplorazioni dei giacimenti domestici di gas e petrolio e – sempre di più – investendo nelle energie rinnovabili. “Risultato: ora la Danimarca è tra i paesi con la minore intensità energetica (unità di energia per unità di prodotto interno lordo, ndr), è un esportatore netto di energia, conta sul petrolio per meno del 40% del fabbisogno energetico totale e le rinnovabili nel mix energetico sono passate dall’8% del 1999 al 17% nel 2009 (dati Eurostat) e ora sono al 23%, garantendo il 30% del fabbisogno elettrico (dati governo danese). La Danimarca, d’altra parte, è il campione mondiale dell’eolico, che nel 2010, secondo i dati WWEA, da solo ha soddisfatto il 21% del fabbisogno elettrico, mentre il 53% circa dell’elettricità danese è prodotto in cogenerazione, sfruttando cioè anche il calore delle centrali che altrimenti andrebbe sprecato.


Per arrivare dove è, la Danimarca ha messo in campo una serie di politiche, come campagne di sensibilizzazione contro gli sprechi di energia, standard severi di efficienza energetica, tasse sull’energia che ne incorporino i costi ambientali. E per arrivare a liberarsi dalle fonti fossili entro il 2050 ne sta studiando molte altre. Ad esempio, si parla di una tassa sui combustibili fossili da aumentare gradualmente, di sgravi fiscali (oltre a quelli già in vigore) per auto elettriche e riscaldamento a biomassa e di una serie di provvedimenti per l’efficienza energetica, che nel settore residenziale andrebbe migliorata del 50%.


Il cammino fatto fino ad oggi non ha affatto penalizzato la crescita economica danese, anzi, sottolinea il diplomatico: “dal 1980, mentre i consumi sono rimasti piatti e le emissioni sono calate, l’economia è cresciuta dell’80%. “La Danimarca ha sviluppato una forte green economy: secondo un report del WWF è il paese al mondo che deve al cleantech la più grossa percentuale di Pil: 3,4% contro l’1,4% della Cina, che è al secondo posto. Le tecnologie pulite pesano per il 13% dell’export danese; settore trainante è l’eolico, con Vestas che ha uno share del 12% sul mercato globale.


Si capisce dunque perché il paese abbia deciso di imbarcarsi nella sfida di liberarsi completamente dalle fonti fossili al 2050, che pure sarà economicamente impegnativa. Serviranno infatti grossi investimenti e probabilmente aumenterà il costo dell’energia per il consumatore rispetto ad uno scenario ‘business as usual’ (circa 1,3 centesimi di euro in più a kWh, secondo gli studi governativi), allo stesso modo diminuiranno le entrate dello Stato legate alle tasse sull’energia.


Ma la transizione, dicono i calcoli fatti a Copenhagen, sarebbe economicamente sostenibile: rispetto allo scenario ‘business as usual’, eliminare le fonti fossili costerebbe mezzo punto percentuale di Pil da qui al 2050 (assumendo comunque che il Pil del paese raddoppi). Se si considera che dal conto sono esclusi i danni evitati ad ambiente e salute, rinunciando alle fonti sporche (a proposito vedi su Qualenergia.it, CO2, il meno 30% che fa bene alla spesa sanitaria), tutto ciò non sembra affatto una prezzo proibitivo. Come conclude il suo intervento Østervang, il prezzo da pagare per raggiungere l’obiettivo “può essere visto come un’assicurazione contro l’aumento del prezzo dei combustibili fossili“.

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