Crisi e declino dell’energia atomica

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Perché il nucleare, nonostante la sua potente lobby, deve fronteggiare una crisi profondissima, forse quella definitiva: Fuskushima, i costi, lo stop all'estensione delle licenze d’esercizio dei reattori, le difficoltà dell'EPR e dell'AP1000. Uno stralcio di un articolo di Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia.

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A poco più di due mesi dall’incidente ai reattori di Fukushima, in una situazione sempre estremamente critica, e proprio mentre al Parlamento italiano si sta per votare un decreto che metterebbe fuorigioco in modo del tutto strumentale (secondo le stesse parole di Berlusconi) il referendum del 12 e 13 giugno per far esprimere democraticamente i cittadini sull’opzione nucleare, vogliamo riportare una parte dell’articolo di Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia, pubblicato sull’ultimo numero della rivista bimestrale QualEnergia. Un articolo – dal titolo “Punto di svolta” –  che spiega perché il nucleare, nonostante la sua potente lobby, deve fronteggiare una crisi profondissima, l’ennesima, la più difficile, quella forse irreversibile.


 


La fine di un’era”. Der Spiegel ha titolato così un suo pezzo di commento, certo anche sotto l’influenza del dibattito in corso in Germania. Ma ci sono almeno due elementi del quadro attuale che possono effettivamente segnare il declino definitivo dell’industria nucleare, una lobby ancora potente che certamente cercherà di resistere alla crisi.


La prima considerazione riguarda l’estensione delle licenze d’esercizio dei reattori. Negli USA oltre la metà dei reattori l’ha già ricevuta e questa è di fatto la strategia di resistenza di un settore che, se le licenze non venissero prolungate, si troverebbe in una situazione di declino evidente, e non solo in Germania. Abbiamo già ricordato su QualEnergia (Decrescita atomica, 3-VIII, marzo-aprile 2010) l’analisi di Schneider e altri (Nuclear Status Report, 2009) secondo cui da oggi al 2020 bisognerebbe mettere in linea circa un reattore o più ogni mese, se tutti i reattori esistenti andassero a fine vita ai loro 40 anni. Questa strategia è oggi più difficile da perseguire e l’eventuale (probabile?) decisione tedesca di rinunciare a estendere le licenze d’esercizio per i suoi reattori darà un ulteriore colpo a questa strategia in altri Paesi.


La seconda considerazione che va fatta è lo stato evidente di crisi per l’EPR e le difficoltà che sta incontrando la procedura di autorizzazione dell’AP1000 (lo studio di impatto con un aereo è stato rigettato alla fine del 2010 perché lo scenario era troppo limitato). L’analisi di Stephen Thomas, nel numero precedente di QualEnergia, evidenziava i punti critici nello sviluppo dell’EPR, crisi accentuata dopo la cancellazione da parte dell’azienda Constellation del primo progetto negli USA nonostante fosse già nella lista ristretta per l’approvazione per accedere alle garanzie bancarie per l’80% del costo.


A chi in Italia continua, imperterrito, la sua propaganda nucleare, più o meno acculturata, va ricordato che se da noi esistessero le stesse condizioni di favore presenti negli USA, il contratto per il primo EPR sarebbe stato approvato (come negli USA) a un costo pari a 9,6 miliardi di dollari: quasi 7 miliardi di euro, non certo i 4,5 di Enel-EDF o i 5,8 presi a riferimento da autori meno ottimistici.


… Quest’anno ricorre il venticinquennale di Chernobyl. Vale la pena di ricordare i più recenti incidenti nucleari che solo per poco non sono diventati gravi.


Shika, Giappone 1999: durante i test di routine dei sistemi di sicurezza, tre barre di controllo fuoriuscirono dal reattore. Il sistema d’emergenza non funzionò e si dovette intervenire manualmente, mentre il vessel era aperto per la ricarica del combustibile. L’incidente fu tenuto segreto e rivelato solo dopo 8 anni.


Tokai Mura, Giappone 1999: presso l’impianto di produzione del combustibile nucleare, tre operai misero 16 kg di Uranio arricchito al 19% in un contenitore, cosa che avviò una reazione nucleare che colpì i tre operai e coinvolse l’intera area industriale con picchi di radioattività di 15mila volte superiori rispetto al massimo consentito.


David Besse, USA 2002: solo per poco si evitò un incidente rilevante al reattore statunitense nel 2002, quando si scoprì che la corrosione dei metalli era prossima a intaccare il vessel a pressione del reattore. Nonostante le ispezioni regolari i fenomeni di corrosione erano attivi da dieci anni.


Kozlody, Bulgaria, 2006: in un moderno reattore ad acqua pressurizzata, oltre un terzo delle barre di controllo si ruppero e non poterono essere inserite, in caso di incidente o guasto non si sarebbe riusciti a fermare il reattore. «Come andare a tutta velocità su un treno senza freni» commentò l’ex capo dell’Autorità di sicurezza nucleare Kaschteschiev.


Forsmark, Svezia 2006: la fusione del nocciolo di un reattore può avvenire a causa di diversi eventi concatenati. A causa di un cortocircuito all’esterno dell’impianto, mancò la corrente al reattore che fu arrestato. Il blackout durò 22 minuti – due generatori diesel d’emergenza su quattro erano fuori uso – e la situazione fu poi recuperata appena in tempo. Secondo un ex dipendente della centrale, i primi danni al reattore ci sarebbero stati in 30 minuti.


… In Italia il fantasmagorico piano del Governo prevede circa 13mila MW di nucleare per coprire il 25% del fabbisogno elettrico. Ci vorrebbero – oltre ai quattro EPR dell’accordo Enel-EDF – sei reattori AP1000. A parte la scarsa credibilità di uno scenario del genere, la possibilità di coprire la produzione di 100 TWh con rinnovabili ed efficienza esiste, sarebbe a costi sopportabili e potrebbe creare molti più posti di lavoro. Il Governo, invece, sembra intento a trovare un modo per bloccare sul nascere il settore delle rinnovabili. Anche da parte Enel si ammette che le due prospettive – grande sviluppo delle rinnovabili e quota rilevante da nucleare – sono alternative.


E, in effetti, questo conflitto si vede già sulla rete elettrica spagnola dove proprio la presenza del nucleare nelle giornate di forte ventosità richiede di staccare parte della produzione eolica. In quel Paese la quota di elettricità da rinnovabili è già al 35% contro il circa 21% raggiunto in Italia. Portare l’obiettivo 2020 a questa quota “spagnola” è tecnicamente possibile anche in Italia, ma vanno rivisti al rialzo gli obiettivi fissati dal Piano nazionale, specie per l’eolico e il fotovoltaico.


Così come sarebbe importante espandere il peso delle misure di efficienza negli usi finali, su cui esiste un documento di Confindustria. L’ostilità espressa dal Governo verso le rinnovabili ha come “mandante” il vertice di Confindustria che, evidentemente, non ha alcun interesse a difendere un settore di imprese giovane e in crescita. Forse si vuole difendere l’oligopolio elettrico che, dopo la crisi economica e le ridotte prospettive di consumi elettrici, vede male l’espansione delle rinnovabili. Forse si mira a caricare sulla bolletta incentivi per favorire altri settori industriali promuovendo l’efficienza? O si crede ancora nella possibilità di far partire il nucleare in Italia?


Sarebbe ora di cambiare strada, come sta facendo la Germania, e lanciare una strategia basata su rinnovabili ed efficienza. Se si fa sul serio, c’è spazio per tutti. Dal Giappone, peraltro, arriva anche una buona notizia: la produzione eolica (2.300 MW) non ha avuto alcun danno dal terremoto.


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