Ricette per un panorama energetico in trasformazione

Il passaggio dall’era dei combustibili fossili a quella delle energie rinnovabili impone un cambio di paradigma nel modo di spostarsi, di produrre e consumare l’energia, di fabbricare le merci, di trasportarle, di riutilizzarle. Un estratto di un articolo di Guido Viale pubblicato sulla rivista QualEnergia.

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Il complesso panorama energetico è in trasformazione. Il passaggio dall’era dei combustibili fossili a quella delle energie rinnovabili impone un cambio di paradigma nel modo di spostarsi, di produrre e consumare l’energia, di fabbricare le merci, di trasportarle, di riutilizzarle. In un articolo (Energie in cambiamento – pdf) pubblicato sulla rivista QualEnergia, Guido Viale, economista ambientale, spiega come non siano i limiti intrinseci delle tecnologie pulite o delle risorse economiche a frenare questa transizione, ma essenzialmente gli aspetti di carattere organizzativo e gestionale che emergono quando una tecnologia studiata e messa a punto in laboratorio o in un diverso contesto viene “immersa” in un ambiente socioeconomico, culturale e, in molti casi, anche “naturalistico”, che non è preparato ad accoglierla.


Un cambiamento che non è solo legato alla diffusione delle rinnovabili e delle tecnologie per l’efficienza energetica, ma che ha innanzitutto bisogno di molti soggetti capaci di metterlo in pratica. Aspetto essenziale è il trasferimento, a territori più o meno circoscritti e alle comunità che li abitano, di larga parte delle responsabilità di governo dei processi economici che sono state in passato prerogativa dello Stato nazionale. Centrale, dunque, in questo passaggio di consegne ai territori, è il ruolo delle Amministrazioni locali. Fondamentale in questo processo anche la comunità nel suo complesso, quindi le imprese locali e l’organizzazione attiva dei cittadini.


Qui riportiamo l’ultima parte del lungo articolo di Guido Viale in cui si teorizza l’idea di un nuovo modello di sistema energetico e degli ostacoli posti dall’attuale assetto del mercato.


 


Il mercato dell’energia (gas ed elettricità) è stato liberalizzato, ma non si può certo pretendere che ogni singolo utente si metta a seguirne i costi per cambiare fornitore ogni volta che se ne presenta la convenienza. Ma quello che non può fare il singolo utente – nemmeno se è una piccola impresa – lo può fare la forza contrattuale degli utenti associati (alcune imprese già lo fanno); e tanto meglio se a promuovere, legittimare o garantire questa associazione è l’Ente locale. Nei confronti del mercato ci vuole una mediazione: una ESCo che agisce per conto di tutti gli associati e che, oltre a contrattare le forniture energetiche, interviene nelle abitazioni e nelle imprese degli utenti associati per promuovere misure di efficienza energetica, sfruttando gli incentivi (come i certificati bianchi) a cui il singolo utente non ha la possibilità di accedere. Ma anche attivando i finanziamenti resi possibili dalla cessione degli incentivi del conto energia.


La valorizzazione delle fonti rinnovabili, per chi ha un tetto, o una pertinenza esposta al vento, o una falda suscettibile di sfruttamento geotermico a disposizione, può avvenire in forma decentrata; oppure in forma associata (e di questa soluzione ci sono già importanti esempi), abbinando le forniture a un gruppo di utenti a un impianto centralizzato gestito dall’Amministrazione locale o da una società a questa associata. Naturalmente non potrà candidarsi a operazioni del genere un’Amministrazione che non abbia innanzitutto provveduto ad attivare tutte le forme possibili di risparmio energetico e di ricorso alle fonti rinnovabili negli edifici e negli impianti che appartegono al suo patrimonio. E poiché questi interventi hanno bisogno di progettisti, di installatori e di manutentori, è in questo modo che si promuove la creazione e la diffusione di imprese in grado di rispondere a questa domanda, ponendo le premesse perché il territorio nel suo complesso non debba più ricorrere a imprese e personale che vengono da lontano (e che saranno poi poco disponibili per garantire una manutenzione tempestiva).


A un livello superiore di coordinamento tra Enti locali e territori contigui, si può anche promuovere lo sviluppo di produttori e fornitori di impianti; ovvero proporre una riconversione alla produzione di impianti di sfruttamento delle fonti rinnovabili, o di loro componenti, fabbriche votate alla chiusura o a intollerabili ridimensionamenti (ciò potrebbe consentire di mettere in discussione anche produzioni nocive o micidiali, come automobili di lusso e armi, nonostante che sui mercati vadano a gonfie vele).


Quello che qui si prospetta in campo energetico può essere riproposto in molti altri ambiti, dalle bollette telefoniche e di connessione internet contrattate congiuntamente alla mobilità flessibile, alla gestione del territorio e del suo assetto idrogeologico. Qual è il punto? I punti sono due. Primo: con pochissime eccezioni, le Amministrazioni locali e soprattutto il loro personale politico (ma anche quello inquadrato nella struttura) non hanno la cultura, la sensibilità e le conoscenze per avviare, o anche solo aggregarsi, a processi del genere. Secondo: anche se lo volessero, non dispongono, e disporranno sempre meno, di strumenti operativi. La legge italiana – violenta versione nazionale di orientamenti della UE assai meno vincolanti – impone loro di dismettere entro breve le imprese controllate o partecipate, per affidarle a gestioni private e a processi di aggregazione (vedi i casi di Hera, A2A, Enìa, Iride, Acea, ecc.) che le allontanano sempre più dal territorio, dalle sue esigenze e, soprattutto, dalle sue possibilità di un controllo diretto da parte degli utenti; per trasformarsi in holding coinvolte nel gioco finanziario planetario che ha scatenato e continua a riprodurre la crisi che stiamo attraversando.


Per invertire rotta bisogna uscire da una cultura della competitività (tutti contro tutti, per niente altro che la “sopravvivenza”) che non fa che abbassare sempre più gli standard di chi vive del proprio lavoro, senza offrire alcuna prospettiva a un’autentica riconversione ambientale. Occorre che nei territori di loro competenza agli Enti locali venga restituita la possibilità, nella massima trasparenza di fronte ai propri amministrati, di fare impresa, di promuovere accordi che garantiscano mercato a chi si impegna in produzioni che corrispondono a un disegno condiviso, di sostenere riconversioni produttive di imprese senza futuro, o che tolgono il futuro ad altri.


All’inizio del secolo scorso, per fornire alla parte meno privilegiata dei propri amministrati elettricità, acqua, gas, fognature, trasporto, e poi anche gestione dei rifiuti, sanità, assistenza, cultura, le Amministrazioni a guida socialista o democratica del nostro Paese avevano fondato le imprese “municipalizzate”; che esse potevano controllare direttamente, grazie alla copertura di una legge nazionale voluta da Giolitti.


Quel sistema di imprese pubbliche, che ora la legge impone di smantellare, è stato fatto in gran parte degenerare dal clientelismo; senza peraltro che la sua privatizzazione abbia portato alcun miglioramento agli utenti; mentre ha contribuito comunque non poco ad alimentare una nuova ondata di “finanziarizzazione” dell’economia e l’“esternalizzazione” dei servizi, affidati a subappalti fondati sullo sfruttamento intensivo del lavoro.


Le forme dell’intervento dei municipi nell’economia devono sicuramente cambiare; la trasparenza di tutte le operazioni effettuate, il coinvolgimento della cittadinanza attiva nella gestione ne devono diventare vincoli ineludibili, perché sono l’unico presidio nei confronti delle degenerazioni clientelari, che aprono poi le porte alle infiltrazioni e al controllo della malavita organizzata; ma non ci sarà riconversione ambientale senza un recupero radicale, da parte delle Amministrazioni locali, del potere di intervenire nella gestione dei processi di produzione e di consumo che interessano il loro territorio.


Guido Viale (economista ambientale)


articolo pubblicato sulla rivista bimestrale QualEnergia – Anno IX (n.1, febbraio-marzo 2011)


 

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