Il clima dopo Cancun

Le negoziazioni per il clima sono oggi molto più complesse perché si tratta di mettere d’accordo non solo i Paesi industrializzati come a Kyoto, ma tutti gli Stati. È possibile che si assista a uno stallo di diversi anni, in attesa che equilibri interni dei Paesi forti e squilibri climatici spingano verso un accordo. Dall'editoriale di Gianni Silvestrini per la rivista QualEnergia.

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16 febbraio 2011: si celebra il sesto anniversario dell’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto senza sapere cosa succederà quando, alla fine del prossimo anno, si chiuderà il conteggio delle emissioni. Chi oggi è deluso per le incertezze dei Governi e per la debolezza dell’eco-diplomazia deve ricordare l’analoga suspense che aleggiava all’inizio dello scorso decennio. Solo la sapiente regia europea riuscì infatti (a fronte anche di significative contropartite economiche) a coinvolgere la recalcitrante Russia nella ratifica del trattato, garantendo così l’entrata in vigore del Protocollo. Un’eventualità che, dopo il tradimento degli USA di Bush, era ormai appesa a un filo.


Le negoziazioni adesso sono decisamente più complesse perché si tratta di mettere d’accordo non solo i Paesi industrializzati come a Kyoto, ma tutti gli Stati del Pianeta. L’ampiezza della partita in gioco ha portato i grandi interessi a schierarsi a favore o contro. È importante sottolineare che i rapporti di forza tra i poteri economici dominanti che ostacolano un accordo e quelli che invece premono per una soluzione globale si stanno modificando a favore di questi ultimi. Ma si tratta di una corsa contro il tempo. Bisognerà vedere se l’accumularsi di forze positive riuscirà a impedire conseguenze devastanti e irreversibili. Dopo la delusione di Copenhagen e la sorpresa di Cancun ci si può aspettare un esito positivo già a dicembre a Durban? Difficile dirlo. È anche possibile che si assista a uno stallo di diversi anni, in attesa che equilibri interni dei Paesi forti e squilibri climatici spingano verso un accordo.

Cerchiamo di capire schematicamente chi spinge per la definizione di obbiettivi di contenimento delle emissioni climalteranti e chi invece teme questo scenario. Un elemento sicuramente decisivo nelle democrazie più aperte è rappresentato dalla pressione dell’opinione pubblica internazionale. Riuscirà questa nuova superpotenza, sconfitta in occasione della guerra in Iraq, a imporsi in questa sfida globale? I cittadini non agiscono solo stimolando le istituzioni, ma sono soggetti fondamentali del cambiamento con la modifica dei loro comportamenti. Oltre al ruolo scontato degli ambientalisti è possibile che le stesse religioni si faranno sentire in maniera più incisiva, vista la valenza etica connessa con i rischi di cambiamenti epocali.

Un secondo comparto che spinge nella direzione di un accordo è rappresentato dalle imprese “low carbon”. Si tratta di settori in rapida crescita, in particolare dove le istituzioni hanno creato contesti favorevoli. Parliamo delle fonti rinnovabili, dell’efficienza energetica, della mobilità sostenibile, dell’edilizia a basso consumo, della forestazione, dell’agricoltura …
Quali sono invece gli interessi che temono di venir danneggiati da un accordo di contenimento delle emissioni? Innanzitutto i produttori di petrolio e carbone. Il loro peso è elevatissimo nei Paesi dell’Opec, nella Russia maggior esportatore mondiale di greggio, negli Stati carboniferi come USA, Cina e Australia. Anche le utilities con centrali a carbone e le società energivore (acciaio, cemento, …) sono esposte.
Ci sono poi altri comparti, come quello automobilistico, che temono i vincoli sulle emissioni, come dimostrano le reazioni durissime delle società statunitensi alle misure adottate dalla California.

C’è un’ultima area preoccupata da un accordo legalmente vincolante. Sono i Paesi in via di sviluppo, inclusi quelli con tassi annui di crescita delle economie a doppia cifra, che temono misure che interagirebbero con le dinamiche economiche interne. Va sottolineato, peraltro, come una parte di queste emissioni sia legata alla produzione di oggetti venduti nei Paesi industrializzati. Per esempio, un quarto delle emissioni climalteranti della Cina è attribuibile alle esportazioni nette di beni. Si aggiungono argomenti stringenti come la comparazione delle emissioni pro capite dei vari Paesi o l’analisi delle emissioni storiche rispetto a quelle dei Paesi industrializzati. Qualsiasi accordo dovrà tener conto delle diverse condizioni di partenza e delle emissioni di carbonio “importate”, per esempio attraverso l’adozione di una carbon tax o la valutazione del contenuto di carbonio delle merci. Ci sono però diversi fattori che spingono per un mutamento delle posizioni più rigide nelle trattative.

Questi Paesi sono i più esposti alle conseguenze dei cambiamenti climatici: il raggiungimento di un accordo consentirà di avere risorse per difendersi dagli impatti e rendere meno pesanti i disastri sul lungo periodo. Inoltre in alcuni Stati stanno emergendo diversi settori della green economy legati proprio al raggiungimento di accordi di riduzione delle emissioni di CO2. La Cina, per esempio, è il primo produttore di celle fotovoltaiche e di aerogeneratori al Mondo e aspira a coprire altri comparti come quello dei veicoli elettrici. Tutti questi elementi rendono più agevole una trattativa, come dimostrano le aperture degli ultimi due anni.


tratto dall’editoriale della rivista QualEnergia, n.1/2011

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