Gas non convenzionale, tra prospettive e criticità

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Il notevole potenziale mondiale di shale gas, estraibile da alcune rocce scistose, potrebbe far rivedere la struttura energetica di molti paesi a partire da Stati Uniti e Cina. Come si muovono le grandi compagnie. I rischi ambientali temuti dall'opinione pubblica. Un articolo di Fabio Catino.

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Partecipare al flusso degli eventi, essendone contemporanei, spesso non ci consente di stabilirne la portata, se non a posteriori, quando raggiunto un’acme di occorrenza, una serie si riconosce affine. Le si può attribuire un nome e se ne può definire l’importanza complessiva. Forse ci troviamo in questa condizione nell’esaminare la tendenza allo sfruttamento delle risorse di gas non convenzionale.

Non sono trascorsi molti anni dai tempi in cui, affrontando il tema delle prospettive delle fonti fossili e di una paventata crisi di approvvigionamento energetico, in particolare relativamente al petrolio, si prospettava il ricorso alle fonti non convenzionali (sabbie e scisti bituminosi) come soluzione possibile alla scarsità di greggio. Possibile, ma allora considerata anche soluzione futuribile per gli alti costi economici e ambientali di produzione, soprattutto relativamente al consumo di territorio e risorse idriche. Eravamo alla fine degli anni ’90, il prezzo del petrolio si era stabilizzato a livelli inferiori a 20 $/barile dopo la prima guerra del Golfo, la crisi delle economie asiatiche aveva superato il suo culmine e non era ancora esplosa la bolla speculativa delle dot.com (l’ipertrofia del valore di borsa delle internet companies), il protocollo di Kyoto era stato appena siglato e il controllo delle emissioni di gas serra non costituiva ancora un parametro operativo per la valutazione dei progetti energetici.

Una decade dopo, intercorse peraltro altre e più gravi crisi internazionali geopolitiche, ambientali ed economiche, il panorama degli idrocarburi non convenzionali si presenta completamente mutato. Non tanto per quanto riguarda il petrolio, le cui varie tipologie di risorse non convenzionali rimangono sostanzialmente in giacimento per differenti cause di ordine sia economico che ambientale, quanto per il gas, in particolare per il gas estraibile da alcune rocce scistose (shale gas). Rispetto ai giacimenti di questo tipo di gas compresso, la cui estrazione è associata a perforazioni prevalentemente orizzontali (vedi figura) che promuovono la fratturazione idraulica indotta della matrice rocciosa (fracing), si assiste a una dinamica di riposizionamento degli assets in titoli minerari.

Diverse Majors oil companies (CNOOC, Total, Statoil e altre) stanno acquisendone riserve, anche assorbendo aziende minori con esperienze specifiche nelle operazioni di upstream o con esse stipulando joint-venture. Non fa eccezione l’Eni che non più di tre giorni fa ha annunciato di aver sottoscritto con CNP/Petrochina un accordo di programma per lo sfruttamento di shale gas non soltanto in Cina (la compagnia cinese è particolarmente attiva in Africa).

A testimonianza delle tendenze in atto, tuttavia è forse ancora più significativo esaminare quello che sta avvenendo nel mercato energetico statunitense, che probabilmente si confermerà anche in questo caso antesignano delle trasformazioni su scala mondiale. Il vero boom di interesse per i depositi di shale gas, consolidatosi oltreoceano lo scorso anno attraverso numerosi trasferimenti di portafogli in titoli e cessioni di compagnie minerarie specializzate, è culminato con l’operazione portata a termine da Exxon che ha acquisito, nel mese di dicembre e per un valore di 4,3 miliardi di dollari, Atlas Energy, una società detentrice dei diritti di sfruttamento su ricchi giacimenti localizzati in Pennsylvania, nella serie stratigrafica denominata Marcellus shale (vedi foto dall’alto). Operazioni di queste dimensioni, anche se condotte da compagnie caratterizzate da fatturato di ordine superiore, comportano valutazioni strategiche ben ponderate. Soprattutto supportate da elementi oggettivi in base ai quali prospettare scenari molto credibili nel medio-lungo periodo. E dimostrano il livello della fiducia riposta nello sviluppo della risorsa shale gas.

Dunque aspettative di forte crescita. Ma a ragione di cosa rispetto all’avversione che diffusamente muove l’opinione pubblica contro tecnologie di estrazione mineraria ritenute pericolose per la salute e per l’ambiente? E’ noto infatti che uno degli elementi più interessanti per gli operatori dell’upstream del gas, ossia la prossimità dei giacimenti ai mercati di destinazione (com’è il caso del Marcellus shale rispetto alle aree popolose della east cost statunitense), rappresenta anche nello specifico dello shale gas un fattore critico.

Poiché il rischio di inquinamento delle falde acquifere e dei terreni sovrastanti non è stato finora controbilanciato da garanzie sufficienti riguardo la sicurezza delle tecnologie per l’estrazione del gas, prevale nelle comunità limitrofe ai giacimenti (sia urbane che rurali) una notevole diffidenza sul loro sfruttamento. Le tecnologie di estrazione comportano infatti l’iniezione a pressione nel sottosuolo di soluzioni acquose di sabbia e sostanze chimiche (proppants) di varia natura in relazione alle caratteristiche litologiche, strutturali e composizionali della roccia serbatoio.

Questa circostanza, che ha causato negli USA azioni legislative ostative a diverso livello istituzionale (vedi la moratoria dello Stato di New York sulle attività nella zona del Marcellus Shale entro i suoi confini, abolizione nella legge federale Safe Water Drinking Act delle esenzioni da vincoli di cui beneficiavano le tecniche di fratturazione idraulica), costituisce un forte ostacolo alla coltivazione di una risorsa considerata per altri fattori strategica e di notevole convenienza non soltanto dalle Major oil companies.

Date le condizioni strutturali del sistema economico e industriale degli Stati Uniti, ragioni di carattere più geopolitico che ambientale ne avvalorano la promozione. In primo luogo, sono dirimenti le implicazioni sull’indipendenza energetica. Le dimensioni delle riserve nazionali in shale gas (circa 110.000 Gm3, WEC, Survey of energy resources: focus on shale gas – pdf, 2010) sono tali da prefigurare il sovvertimento della condizione di nazione importatrice di idrocarburi e assicurare al Paese, oltre all’autonomia energetica, decenni di benefici anche dalle esportazioni di gas.
Sono poi di assoluto rilievo anche le problematiche relative alle emissioni di gas a effetto serra. Malgrado gli ingenti investimenti dell’attuale amministrazione per dare impulso alla low carbon economy (circa 117 miliardi di dollari, Green growth: nuovi ambiti di competizione tra i territori – pdf), e considerando le difficoltà politiche che incontrerà la richiesta di ulteriori misure di lotta ai cambiamenti climatici con l’avvento dell’opposizione repubblicana alla Camera dei Rappresentanti, la via maestra per la riduzione delle emissioni statunitensi non potrà non passare dalla conversione dal carbone al gas della produzione di una quota consistente dell’energia elettrica.

Un fenomeno del resto già in atto e che con la conferma delle attuali tendenze dei prezzi (in aumento per il carbone e stabilmente bassi per il gas a causa dell’eccesso di offerta), anche in presenza dei rialzi del greggio, si prevede possa portare la quota gas della generazione elettrica al 35% nel 2030 (Deutsche bank report).

Grandi interessi dunque si confrontano con forti criticità. Su questo dilemma intervengono i recenti sviluppi tecnologici per ridurre l’impatto delle operazioni di estrazione del gas di shale, in particolare a salvaguardia delle risorse idriche, e le azioni di lobbying che ne conseguono, mirate a guadagnare il favore dell’opinione pubblica sui progetti di coltivazione della risorsa.
 

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