La scoria infinita

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Il nodo delle scorie nucleari è tutt'ora irrisolto in tutti paesi che possiedono centrali atomihce. E il progetto nucleare italiano non lo affronta, soprattutto per le scorie di III categoria, quelle più radioattive. Un articolo di Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia, pubblicato sull'ultimo numero della rivista QualEnergia.

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Siamo alle solite. Come nel 2003, il Governo Berlusconi continua a muoversi con la leggerezza di un ippopotamo in un negozio di cristalli. Allora si definiva per decreto Scanzano Jonico come sito per il deposito dei rifiuti nucleari italiani, senza alcuna procedura di trasparenza minima. Poche settimane fa il Presidente del Consiglio ha scritto a Sogin di non pubblicare l’elenco preliminare dei siti possibili per il deposito dei rifiuti nucleari, anche per la mancanza dell’Agenzia di sicurezza nucleare che, peraltro, dovrebbe validare i criteri in base ai quali si selezionano i siti e, successivamente, verificare che siano stati effettivamente rispettati.


Il volume dei rifiuti nucleari provenienti dall’esercizio degli impianti in Italia è di circa 20.000 m3, che con il (futuro) smantellamento delle centrali nucleari dovrebbero salire – secondo le stime a suo tempo elaborate dalla Task Force Enea – a quasi 100.000 m3. Come si vede dalla tabella 1, la gran parte in volume dei rifiuti nucleari è della II categoria, ma in termini di radioattività la III categoria rappresenta la gran parte del problema.



La strategia a suo tempo prevista dal Governo Prodi e dal Parlamento (con la Commissione sul ciclo dei rifiuti presieduta da Massimo Scalia) delineava nel 1999 l’identificazione di un deposito di superficie dove stoccare i rifiuti di II categoria, che richiedono un vincolo territoriale dell’ordine dei 3 secoli, mentre per la III categoria – per la quale si aspetta una soluzione “geologica” – si attendeva una soluzione futura, ospitando temporaneamente questi rifiuti nel deposito di superficie. Il fallito tentativo di Scanzano Jonico – un tentativo di aprire una soluzione geologica in un sito che, per la stessa Sogin, avrebbe richiesto una lunga sperimentazione per lo stoccaggio della III categoria – aveva poi riportato alla strategia precedente, e cioè quella di un deposito di superficie per la II categoria, e a qualche tentativo non riuscito di “esportare” le scorie nucleari all’estero.


La strategia definita alla fine degli anni ’90 bloccava il ritrattamento del combustibile irraggiato, una pratica più costosa e rischiosa dello “stoccaggio a secco”. Ma su questo punto il Governo Prodi nel 2007 cambiava posizione con un accordo con la Francia per il ritrattamento del combustibile irraggiato presente ancora in Italia (gran parte del quale era a Caorso) al centro di La Hague (in precedenza si era inviato il combustibile irraggiato a Sellafield in UK). Il ritrattamento del combustibile irraggiato prevede lo scioglimento delle barre di combustibile esaurite in acidi, la separazione dei prodotti della fissione nucleare (i rifiuti nucleari propriamente detti), dell’Uranio ancora recuperabile per la fissione e del Plutonio (vero obiettivo del processo industriale).


Questa pratica, cessata negli USA dal 1977, è più rischiosa in quanto prevede il trasporto delle barre all’estero e il rientro delle scorie vetrificate, un processo industriale che rilascia radioattività in aria e in acqua, e infine la separazione del Plutonio è un rischio di per sé dato che si tratta di un materiale per le bombe atomiche con scarsissimi utilizzi in campo nucleare civile. Le scorie vetrificate torneranno in Italia sia da Sellafield che da La Hague e, in assenza di un deposito nazionale, verranno ospitate presso le centrali che le hanno prodotte. Il tentativo avviato dal Governo Prodi nel 2007, di esportare parte (circa 20 mila m3) delle scorie nucleari negli USA, è rimasto senza esito, per l’opposizione delle popolazioni locali e del parlamento dell’Utah a importare rifiuti nucleari dall’Italia. Nel 2010 è stata confermata una risposta negativa all’ipotesi, ma la EnergySolutions, la società dell’Utah che aveva sottoscritto un memorandum con Sogin nel 2007, si è detta comunque disponibile a collaborare per realizzare il deposito in Italia.

I LUOGHI


Un primo lavoro per l’individuazione del sito idoneo a ospitare il deposito nazionale fu effettuato dalla Task Force Enea che ultimò i suoi lavori nel 2001. L’area necessaria alle esigenze di un deposito era valutata in 300 ettari. I criteri di esclusione adottati dalla Task Force per l’individuazione del Deposito nazionale (di superficie) per i materiali radioattivi di II categoria, erano definiti (sulla base dei documenti dell’International Atomic Energy Agency di Vienna, della NEA/OCSE e di una risoluzione di un Gruppo di Lavoro della Protezione Civile del 1999) come segue:
• escluse le isole
• escluse le aree entro 50 km dai confini nazionali continentali
• escluse le aree entro i 15 km da centri abitati con più di 100.000 abitanti
• escluse le aree entro i 10 km da centri abitati > 20.000 <100.000 ab.
• escluse le aree entro i 5 km da centri abitati > 10.000 < 20.000 ab.
• escluse le aree entro i 3 km da centri abitati >1.000 < 10.000 ab.
• escluse le aree entro i 2 km da centri abitati > 200<1.000 ab.
• escluse le aree entro i 2 km da autostrade e superstrade
• escluse le aree entro 1 km da strade statali
• escluse le aree entro 1 km dalle ferrovie
• escluse le aree protette, i parchi e le riserve naturali
• escluse le aree prossime ai corsi d’acqua
• escluse le aree che insistono su formazioni rocciose fratturate o solubili o sedimenti alluvionali recenti e attuali
• escluse le aree con pendenza > 5°
• escluse le aree ad altitudini < 20 m s.l.m. e > 600 m s.l.m.
• escluse le aree boscate e le zone umide
• escluse le aree a elevata pericolosità sismica (valore di accelerazione al suolo, comprensiva degli effetti di sito, pari o superiore a 0,3 g per una probabilità di occorrenza del 90% in 300 anni ovvero tempo medio di ritorno di circa 3.000 anni).

Si può immaginare che lo studio di Sogin – recentemente completato ma poi non presentato su richiesta di Berlusconi – dovrebbe avere effettuato l’analisi GIS di terzo livello, riducendo le aree dalle 214, a suo tempo identificate nelle elaborazioni di II livello, a 52, che comunque si può assumere siano state estratte raffinando i criteri di esclusione da quelle riportate in figura 1.




IL NODO IRRISOLTO


La questione dei rifiuti nucleari riguarda essenzialmente i rifiuti di III categoria che contengono la gran parte della radioattività e che vanno isolati dalla biosfera sostanzialmente per sempre. I rifiuti di II categoria andranno custoditi “solo” per 3 secoli, ma in luoghi che rischiano di diventare di fatto i siti di tutte le scorie nucleari. Infatti, non esiste ancora un solo esempio concreto di gestione di lungo termine delle scorie nucleari. Ci sono invece alcuni chiari esempi di insuccesso nel tentativo di stoccare in sicurezza i rifiuti nucleari a lungo termine.


Germania: l’idea di mettere i rifiuti nucleari in formazioni geologiche saline non è nuova. Negli anni ’60 un tentativo fu effettuato in Germania ad Asse, un caso emerso alle cronache in Italia grazie alla trasmissione Presa Diretta di Riccardo Iacona. Nel deposito di Asse sono stati portati nel tempo circa 126.000 bidoni di scorie radioattive e solo pochi anni fa si è scoperto che già dal 1988 vi è una perdita di circa 12 mila litri di acqua al giorno. Asse doveva essere un progetto pilota per sperimentare lo stoccaggio da effettuare negli strati salini nel sottosuolo di Goerleben, ma dopo il caso di Asse oggi in Germania si solevano seri dubbi che questa possa essere una soluzione per lo stoccaggio di lungo termine dei rifiuti nucleari.


Francia: un altro caso di insuccesso è rappresentato dal Centro di stoccaggio dei rifiuti di bassa attività di La Manche nella Francia del nord. Il centro fu aperto nel 1969 e chiuso nel 1994, e contiene 520.000 m3 di rifiuti nucleari. Una commissione costituita nel 1996 dal Governo francese concluse che il sito ospitava in realtà anche rifiuti ad alta attività e a lunga vita e che l’inventario radioattivo del sito non era noto. Nel 2006 è emerso come perdite di acqua contaminata dal sito avevano già coinvolto la falda acquifera, costituendo una minaccia per l’area agricola circostante.

USA: il sito di Yucca Mountain, 80 km a nord di Las Vegas, fu designato nel 1987 come il deposito per lo stoccaggio di lungo termine per i rifiuti radioattivi prodotti negli USA. Il Servizio Geologico statunitense ha però trovato una faglia sismica al di sotto del sito che pone seri dubbi sulla stabilità a lungo termine dello stesso. Come risultato, dopo aver speso miliardi di dollari, il progetto è stato chiuso all’inizio del 2010.

SOLUZIONE GEOLOGICA INCERTA


Greenpeace ha fortemente criticato la strategia europea per la gestione dei rifiuti nucleari che prevede la soluzione “geologica profonda”: la base scientifica e tecnica per sostenere che questa soluzione sia percorribile non c’è ancora. La “soluzione” a questo problema sarebbe infatti stata fornita dal Joint Research Centre (JRC) e dall’European Implementing Geological Disposal Technology Platform (IGD-TP). IGD-TP sostiene, in un documento finanziato dall’Euratom (Vision Document, October 2009, www.igdtp.eu/Documents/VisionDoc_Final_Oct24.pdf) che «lo stoccaggio in depositi profondi è la soluzione più appropriata per smaltire combustibile nucleare esaurito, scorie altamente contaminate e altre scorie radioattive a lunga vita» e questa conclusione è sostenuta dal rapporto 2009 del JCR che afferma che «la nostra comprensione dei processi principali per lo smaltimento geologico si è sviluppata abbastanza da procedere con una realizzazione graduale».


Per criticare questo approccio – basato su una letteratura scientifica assai scarsa – Greenpeace ha commissionato un rapporto per fare il punto delle conoscenze (“Rock solid?”, elaborato da GeneWatch – www.greenpeace.org/eu-unit/press-centre/reports/rock-solida-scientific-review).


Il rapporto evidenzia numerosi problemi, noti in letteratura, incidenti di vario genere che potrebbero portare a rilasci di sostanze radioattive nelle falde acquifere o in mare, per secoli. Senza che almeno si abbia un’idea di come poter intervenire al riguardo. La letteratura scientifica identifica come cause più probabili per questa contaminazione:
• corrosione accelerata dei sistemi di contenimento;
• sviluppo di gas o surriscaldamento con cedimento della camera di stoccaggio;
• reazioni chimiche inattese;
• incertezze sulle caratteristiche geologiche (falde, ecc…) del sito;
• conseguenze di future ere glaciali;
• terremoti;
• interferenze umane.


Molti di questi problemi saranno poi aggravati dalla tendenza a “bruciare” di più il combustibile nucleare, come è previsto dall’EPR (che peraltro può utilizzare anche al 100% combustibile MOX, ossidi misti di Uranio e Plutonio). Un maggiore tasso di “burn up”, infatti, implica una maggiore quantità di prodotti di fissione e una maggiore radioattività, stimata in sette volte maggiore della media delle scorie prodotte dai reattori attuali.


Non solo l’industria nucleare non è mai riuscita a trovare una soluzione praticabile per la gestione di lungo termine dei rifiuti nucleari, ma lo sviluppo della tecnologia – anche per rispondere all’esigenza di maggiore utilizzo dell’Uranio, che è una risorsa scarsa – va verso la produzione di rifiuti ancor meno gestibili di quelli fin qui prodotti.

articolo pubblicato sul n. 5/2010 della rivista bimestrale QualEnergia


 

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