La politica energetica Usa tra green economy e sicurezza

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Qualenergia.it ha intervistato Dan Clune, Principal deputy assistant secretary del Dipartimento di Stato americano, con delega su energia e ambiente. Gli abbiamo chiesto se vede un futuro per la green economy e per la lotta ai cambiamenti climatici negli Stati Uniti del dopo elezioni di mid-term. Secondo Clune l'amministrazione Obama rispetterà i target di riduzione delle emissioni e gli Stati Uniti guideranno la rivoluzione dell'economia verde, anche se con un occhio attento alle fonti fossili e al nucleare.

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Prima il fallimento del Climate Bill, poi le elezioni di mid-term che hanno rafforzato i conservatori al Congresso. Oggi l’ambiente ha ancora un posto nell’agenda politica del Governo americano?
I temi ambientali sono ancora molto presenti nel nostro programma, soprattutto quelli legati ai cambiamenti climatici. L’amministrazione Obama sta lavorando su più fronti per creare un’economia delle energie verdi. Abbiamo stanziato 90 miliardi di dollari per le energie pulite: è il più grande investimento americano sull’energia mai realizzato, parte dello stimulus package che stanzia complessivamente 700 miliardi di dollari. E stiamo iniziando a vedere i risultati degli investimenti fatti. Inoltre il governo ha stabilito ambiziosi target di riduzione delle emissioni: abbiamo un target nazionale, concordato a Copenhagen, del 17% entro il 2020 (l’anno di riferimento è il 2005, ndr). Il Governo si è dato anche un obiettivo specifico del 28%, mentre il Dipartimento della Difesa, che ha notevoli consumi energetici, ridurrà le proprie emissioni del 34%. In più l’amministrazione ha varato nuovi standard di efficienza per i carburanti.

Quindi c’è un futuro anche per i negoziati sui cambiamenti climatici?
Con Cancun all’orizzonte è importante riconoscere che il maggior risultato raggiunto a Copenhagen è stato quello di mettere per la prima volta insieme così tanti Capi di Stato e di governo. A Copenhagen tutte le maggiori economie mondiali si sono impegnate per ridurre le proprie emissioni di gas serra. E in più hanno preso impegni per aiutare i paesi in via di sviluppo. Gli Usa hanno intenzione di proseguire su questa strada a prescindere dai negoziati dell’Unfccc. Raggiungeremo il target del 17% entro il 2020, che si arrivi o meno a un accordo all’interno dell’Unfccc. Abbiamo già cominciato.

Gli Usa andranno a Cancun con lo scopo di fissare target vincolanti?
Siamo ancora dell’idea di darci target vincolanti, ma se i nostri partner non dovessero essere pronti per questo, cercheremo di arrivare a una decisione più bilanciata, anche se meno soddisfacente.

E il popolo americano, per parte sua, è pronto per obiettivi vincolanti?
In ogni grande democrazia ci sono opinioni divergenti. Negli Usa c’è chi pensa che dovremmo fare di più e chi di meno. Ma penso che in fondo i cittadini americani siano trasversalmente convinti della necessità di utilizzare le risorse in modo efficiente e trovare un modo per mantenere il nostro standard di vita con un minore consumo di risorse e più basse emissioni.

Ma all’interno del Congresso, ora in particolare, c’è chi nega il climate change e sostiene che provvedimenti come il Climate Bill cambierebbero drasticamente lo stile di vita americano. Come si relaziona l’amministrazione con queste posizioni?
All’interno del Congresso sono rappresentate tutte le posizioni, ma questo non vuol dire che il Congresso non agirà per migliorare l’efficienza e la sicurezza energetica del paese.

Fallito il Climate Bill, un mercato delle emissioni non è pensabile. Questo potrebbe scoraggiare le tante imprese americane che avevano avviato investimenti nel settore, in particolare nelle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2. C’è timore che possano rivolgersi verso mercati esteri?
Innanzitutto va detto che il commercio delle emissioni è solo uno dei modi per affrontare i cambiamenti climatici. Se non può essere attuato, dobbiamo semplicemente trovarne un altro modo per risolvere il problema. E ce ne sono tanti. A mio avviso il modo migliore per pensare alla green economy è in termini di efficienza delle risorse. Non dobbiamo vedere la green economy come qualcosa di doloroso, come fosse una medicina di cattivo sapore che il dottore ci prescriverà, qualcosa che dobbiamo sopportare per il bene del pianeta. La green economy è in verità un buon affare. E non c’è bisogno di nuove tecnologie. Se tu sei un’azienda già avviata, con un processo produttivo avviato e riesci a fare la stessa cosa con un minore uso di risorse, meno energia, meno acciaio, meno legno, tu stai facendo soldi. Quindi il fatto che il Congresso possa non aver approvato una singola legge non vuol dire che la green economy è morta. Assolutamente! Ci sono ottime ragioni perché le aziende e i consumatori continuino ad andare in quella direzione.

Quindi gli Stati Uniti possono ancora giocare un ruolo di leadership nella green economy?
Lo stiamo già facendo e continueremo a farlo. L’economia si trasforma nel tempo e adesso ci stiamo movendo verso un’economia più verde. C’è una citazione famosa di un ministro del petrolio saudita che dice: l’età della pietra non è finita quando nel mondo sono finite le pietre e l’età del petrolio non finirà quando nel mondo finirà il petrolio. Stanno avvenendo dei cambiamenti e sono diversi i paesi che stanno guidando il cambiamento. Molti paesi europei, in particolare la Danimarca, sono un modello per l’efficienza energetica e l’uso delle rinnovabili. E la Cina sta sorprendentemente diventando leader nell’energia solare.

In questo scenario, in assenza di regole stabilite e condivise, il mercato sarà in grado di spingere verso questo cambiamento?
Non immagino un mercato totalmente privo di regole. La regolamentazione ha un ruolo determinante. Il mercato è un potere enorme ed è necessario, perché avvenga qualcosa, che la gente possa pensare che esista un interesse nel fare certe scelte. Il mercato può fornire quest’energia. Ma non può essere totalmente privo di regole. Abbiamo visto, con la crisi finanziaria, quali problemi possono derivare da un mercato completamente non regolato. Ce una sottile linea sulla quale dobbiamo camminare: da una parte non vogliamo un mercato troppo regolato che spaventerebbe gli investitori, ma al contrario non vogliamo che sia troppo poco regolamentato perché potrebbe non essere in grado di raggiungere i risultati sperati. Dobbiamo fare in modo che ci sia una quantità sufficiente di regole perché il mercato produca i migliori risultati possibili senza doverlo annientare.

Qual è la posizione dell’amministrazione Obama sul nucleare? Guardate all’atomo come parte della strategia di riduzione delle emissioni?
Per l’amministrazione Obama il nucleare è parte della soluzione per raggiungere la sicurezza energetica e affrontare il cambiamento climatico. Entrambe le questioni richiedono soluzioni su più fronti, ma oltre a rinnovabili ed efficienza energetica, anche il nucleare gioca un ruolo. Il vantaggio dell’energia atomica, sul piano della lotta ai cambiamenti climatici, è che non produce CO2. Sul piano della sicurezza energetica il vantaggio è che noi abbiamo l’uranio e in più con i reattori di terza e quarta generazione ne servirà sempre meno. E abbiamo una struttura normativa altamente sviluppata ed efficace per assicurarci che le centrali nucleari non creino problemi ambientali.

Ci sono centrali attualmente in costruzione negli Usa?
Dopo l’incidente di Three Miles Island per decenni non si sono più costruite centrali negli Usa. Adesso abbiamo apportato qualche cambiamento alla legge per incoraggiare le compagnie a creare nuovi impianti. Al momento abbiamo due centrali in costruzione che dovrebbero entrare in funzione entro il 2016, e undici in fase autorizzativa.

Per quanto riguarda il petrolio, dopo il disastro del golfo del Messico la politica sulle nuove perforazioni è cambiata?
Sicuramente il disastro della Bp ha alzato il livello di attenzione sulle questioni relative alla sicurezza. Ma la verità è che il petrolio, il gas e il carbone continueranno ad essere parte dei nostri consumi energetici ancora per decenni, anche se dobbiamo fare del nostro meglio per sviluppare altre fonti energetiche e assicurarci che l’estrazione di queste risorse avvenga nella massima sicurezza. Bisogna creare un impianto regolatorio, ma è un processo lungo e complesso. Per esempio adesso stiamo guardando con grande interesse al gas da scisto ma ci sono molte preoccupazioni per gli effetti che potrebbe avere sull’ambiente e in particolare sulla qualità dell’acqua.

Lei è in Italia per discutere la Global Bionergy Partnership di cui fanno parte sia il nostro paese che gli Usa. Di cosa si tratta?
È un’organizzazione creata dai pesi del G8 per promuovere l’uso dei biocarburanti, in particolare nei paesi in via di sviluppo. L’idea è di aiutare questi paesi a prendere decisioni riguardo i biocarburanti. Ad esempio fornendo analisi che mettono a confronto il biocarburante che un paese sta valutando di utilizzare con le fonti energetiche che ha utilizzato fino a quel momento. Vengono elaborati anche degli indicatori di sostenibilità.

Finora in alcuni paesi in via di sviluppo i biocarburanti sono stati causa di disastri ambientali.
Lo scopo della partnership è di aiutare i paesi in via di sviluppo a prender la giusta decisione sui biocarburanti. Il che non significa necessariamente svilupparli. Per alcuni paesi potrebbe non essere la scelta migliore. Qualsiasi sia la decisione che i paesi prendono, questa non deve danneggiare l’ambiente e deve migliorare il benessere delle persone.

 

 

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