Puntare sul verde

Gli investimenti verdi hanno un doppio dividendo: mitigazione del rischio climatico e rilancio dell'economia e dell'occupazione. La debolezza delle analisi di chi critica l'inopportunità di impiegare risorse per rinnovabili ed efficienza energetica. Un articolo di Giuseppe Gamba pubblicato sulla rivista bimestrale QualEnergia.

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Nel giro di poco tempo la “green economy“, che pareva confinata a speranza dei soli ambientalisti e di qualche economista ambientale, ha sfondato il muro della diffidenza ed è diventata argomento di discussione nei vertici di Capi di Stato e di Governo. Con la complicità certo non casuale della crisi energetica e climatica, della crisi finanziaria ed economica dell’Occidente e del cambio di leader politici in importanti Paesi del Mondo, la green economy è diventata paradigma di un “nuovo” new deal cui affidare le sorti del Pianeta, della crescita economica e dell’occupazione.

A partire dal 2008, mentre l’economia rallentava in preda alla recessione con moria di imprese e riduzione drastica degli investimenti, nel settore dell’energia e dell’efficienza gli investimenti invece hanno marciato in tutto il Mondo a ritmi superiori alla media, sono nate nuove imprese (+17% in Italia nel 2009), gli investimenti nelle rinnovabili hanno superato quelli nelle fossili in Europa e USA e il sorpasso è atteso nel 2010 a scala globale. I piani di green stimulus dei maggiori Paesi hanno destinato a partire dal 2008 una cifra complessiva di circa 188 miliardi di dollari agli interventi legati alle energie rinnovabili e all’efficienza energetica. Alla fine del 2009, come ci ricorda lo studio di REN21 “Renewables 2010, Global Status Report” (Qualenergia.it, REN21, rinnovabili mondiali verso il sorpasso) solo il 9% di quelle risorse risultavano già utilizzate, mentre ci si aspetta che il grosso di quegli investimenti pubblici vengano spesi nel corso dell’anno corrente e del 2011. Legittimo quindi l’acceso dibattito intorno alle previsioni sui potenziali di crescita e di occupazione legati agli investimenti e alle politiche pubbliche.

A chi si occupa di clima e di transizione energetica non sarà sfuggito il profluvio di studi, previsioni e stime tesi a dimostrare, in qualche caso a negare, i potenziali benefici economici e occupazionali delle politiche di riduzione delle emissioni climalteranti, di incentivazione delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica. Sebbene siano in molti a prevedere che gli investimenti pubblici e privati in quei settori diano origine con ragionevole certezza a un “doppio dividendo” rappresentato dalla mitigazione del rischio climatico e dal rilancio su nuove basi dell’economia e dell’occupazione, numerosi studiosi richiamano l’attenzione sul fatto che è assai complesso in realtà stimare gli impatti delle politiche per il clima, cioè quantificare i costi e i benefici globali diretti e indiretti.

Le stime degli occupati attuali nel settore delle FER e dell’efficienza sono molto incerte, a causa della mancanza di rilevazioni statistiche sistematiche e comparabili. In altre parole i dati statistici relativi alle nuove tecnologie sono difficilmente disaggregabili dalle categorie generali di appartenenza e ovviamente ciò pesa sulle proiezioni, poiché i risultati delle simulazioni e i modelli econometrici dipendono dalla qualità dei dati, dalle semplificazioni e approssimazioni delle assunzioni di base, nonché ovviamente dai metodi di stima, dalle ipotesi sugli scenari normativi, tecnologici ed economici futuri e dalla fiducia nell’implementazione reale delle politiche.

La stima degli impatti netti sull’occupazione deve mettere in conto – e valutare – le potenziali perdite di lavoro dovute allo spiazzamento delle tecnologie convenzionali, gli effetti indiretti – positivi e negativi – su molti settori collegati e gli effetti di stimolo su tutta l’economia. A dimostrazione di questa complessità e dell’incertezza delle stime vi è l’ampio ventaglio di previsioni che autorevoli analisti e istituti di ricerca hanno avanzato nel corso degli anni a proposito dei potenziali di crescita del PIL e dell’occupazione collegati alle politiche e agli accordi internazionali.

Nella tabella 1 (vedi pdf – pag 72) è riportata una selezione di stime e previsioni, una rassegna che – pur non avendo intenti esaustivi – raccoglie le ipotesi più autorevoli e conosciute. Da questo sintetico quadro emerge la variabilità e l’incertezza dei risultati, anche se talune differenze sono in realtà motivate da ipotesi di stima esplicitamente diverse mentre in altri casi si riscontrano significative convergenze di taluni valori. In generale paiono emergere alcune chiare linee di tendenza confermate dalla valutazione d’insieme.

Si confermano a livello globale le potenzialità di crescita e alcuni significativi effetti netti sull’occupazione. Ciò è particolarmente vero a livello globale ed europeo, dove le stime di crescita sono confermate dall’andamento storicamente verificatosi nelle economie più preparate a cogliere strategicamente la sfida della nuova economia (la Germania passata da 160.000 occupati nelle rinnovabili nel 2004 agli oltre 300.000 di inizio 2010; la Danimarca che accanto agli exploit di esportazione di tecnologia e di unità di produzione nel settore eolico, conserva e incrementa l’occupazione interna su livelli di decine di migliaia di unità; la Spagna dove l’ISTAS prevede, a partire da una presenza nel 2007 stimata in oltre 10.000 imprese e 188.000 occupati diretti e indiretti, un raddoppio di occupati nei prossimi dieci anni, per non parlare degli Stati Uniti, “new entry” delle politiche per il clima, ma in grado di produrre veloci tassi di crescita una volta eliminate le barriere esistenti ai tempi dell’amministrazione Bush) e si assiste in molte economie emergenti alla rapida allocazione di ingenti risorse finanziarie pubbliche e private sulle filiere delle rinnovabili: non solo la Cina impegnata nelle biomasse “tradizionali” e ora anche nelle tecnologie solari ed eoliche di punta, ma anche Brasile, India, Indonesia e altri.

PIANETA ITALIA

Previsioni più contrastate in Italia dove i limitati risultati finora raggiunti scontano il ritardo nelle politiche e nell’iniziativa privata, ma dove le previsioni per il futuro disegnano anche scenari che possono premiare le misure di forte incentivazione in corso. Accanto agli scenari assai prudenti ancorché molto articolati nel metodo dello studio Ires – Cgil 2010 “Lotta ai cambiamenti climatici e fonti rinnovabili: gli investimenti, le ricadute occupazionali, le nuove professionalità”, le stime di Cnel – ISSI (2009), della Commissione europea (EmployRES, 2009) e di Iefe – Bocconi per GSE nel 2009 avanzano ipotesi più ambiziose.

Quest’ultimo studio, prendendo in considerazione l’incertezza circa la capacità della nostra industria di trattenere il valore degli investimenti, ovvero di creare nuove imprese per competere sul mercato globale, formula tre prospettive nelle quali l’industria italiana dei settori interessati è stimata in grado di sfruttare rispettivamente molto poco, mediamente e pienamente le opportunità di fornire il mercato interno sostituendo le importazioni che oggi assorbono il 70% circa degli investimenti nazionali. Nel primo caso l’industria nazionale potrà darsi un obiettivo di fatturato medio annuo di 2,4 miliardi per i prossimi dodici anni e un’occupazione aggiuntiva di circa 100.000 unità. Nel secondo scenario, introducendo l’ipotesi di una ripresa del tradizionale ruolo di leadership tecnologica nel campo delle tecnologie convenzionali (termoelettriche e idroelettriche) con una diversificazione dei produttori tipici verso le nuove tecnologie rinnovabili e un’entrata da altri settori tradizionali (elettronica, meccanica, automazione) si potrebbe pensare di coprire il 50% della quota del mercato tecnologico con produzioni nazionali. In questo caso il fatturato medio annuo “nazionale” potrebbe assumere valori di 4 miliardi di euro (per dodici anni) e l’occupazione raggiungere le 150.000 unità (100.000 unità aggiuntive ricadrebbero invece nei Paesi di origine delle importazioni). Il terzo scenario è basato su un alto sfruttamento delle opportunità, la valorizzazione dell’intera filiera produttiva delle tecnologie rinnovabili e la capacità di competere nel mercato manifatturiero internazionale coprendo circa il 70% della quota di mercato interno e realizzare così un fatturato medio annuo di 5,6 miliardi di euro per i prossimi dodici anni. L’occupazione potrà raggiungere in questo caso le 175.000 unità (e altri 75.000 all’estero). Un obiettivo ambizioso ma raggiungibile, a patto che il Paese si doti di politiche industriali, oltreché ambientali.

Se la maggior parte degli osservatori preconizza positivi effetti delle politiche per il clima su reddito e occupazione, in taluni casi, pur sottolineando gli elementi problematici che potrebbero vanificare il realizzarsi degli effetti potenziali, non mancano voci critiche e posizioni “negazioniste” che cercano di smentire le aspettative più favorevoli, segnalano l’inutilità quindi (è il loro vero obiettivo) la sospensione.
Appartengono a questo filone lo studio di Gabriel Calzada riferito agli effetti sulla disoccupazione dei programmi di sostegno alle fonti rinnovabili in Spagna e lo studio di Luciano Lavecchia e Carlo Stagnaro dell’Istituto Bruno Leoni “Are Green Jobs Real Jobs? The Case of Italy”. Entrambi definiscono, con una certa enfasi ideologica, «uno spreco» lo sforzo pubblico di sostegno alle nuove fonti energetiche e «debole» il suo legame con il rilancio dell’economia e dell’occupazione, ma le loro basi di partenza e le elaborazioni sono state da più parti criticate. Non varrebbe la pena esaminarli in questa sede, non fosse che entrambi sono stati ripresi dai media e nel dibattito politico e che gli errori e le manipolazioni su cui si appoggiano vengono sovente rilanciati nel dibattito politico.

Tre sono gli argomenti principali di queste posizioni:

• la spesa a sostegno delle rinnovabili produce effetti di reddito e sull’occupazione netta molto inferiori a quelli attesi, inferiori anche a quelli che si otterrebbero investendo le stesse risorse nei settori tradizionali (come se fosse all’ordine del giorno il rilancio dell’industria pesante in Occidente o se gli investitori nei settori tradizionali fossero in attesa di segnali per rilocalizzare in Occidente manifatture ad alto contenuto di lavoro);

• il prezzo medio del kWh rinnovabile (o del mix nazionale conseguente), a causa degli alti costi di incentivazione delle rinnovabili finirebbe per essere inutilmente elevato, penalizzando i consumatori e, una seconda volta, i settori economici più energy intensive con un ulteriore effetto depressivo sull’economia e l’occupazione;

• i risultati in termini di energia rinnovabile prodotta e della sua incidenza percentuale sul bilancio energetico sarebbero alla fine modesti ma pagati a caro prezzo, tanto da non giustificare un sacrificio così elevato da parte della collettività.

Le tesi di Calzada, che definivano «un disastro costoso» la politica spagnola di sostegno alle rinnovabili, un caso che invece è ritenuto da tutti un successo della strategia del doppio dividendo, sono state oggetto di una circostanziata replica dell’ISTAS (Instituto Sindical de Trabajo, Ambiente e Salud) che evidenziano tra le altre cose la parzialità dei dati di base, la scorrettezza dei metodi di stima e l’esagerazione degli effetti negativi sui comparti industriali, e di un’altrettanto puntuale precisazione del Ministero Ambiente spagnolo indirizzata al Chairman della Camera dei Rappresentanti USA (dove le tesi di Calzada avevano avuto forte eco), che confuta punto per punto i dati di partenza e le stime, definendo quello di Calzada un punto di vista sul problema «semplicistico, riduzionista e privo di orizzonte prospettico».

STRANI PARALLELI

Lo studio di Stagnaro e Lavecchia, benché non sia segnato dal furore ideologico antiambientalista che informa il lavoro di Calzada, presenta analoghi errori metodologici, parzialità nelle assunzioni e informazioni di base e semplificazioni di analisi fuorvianti. Il punto focale dello studio è teso a dimostrare la non convenienza del sostegno ai settori delle FER a causa del loro elevato costo di investimento per occupato e di conseguenza il minor numero di posti creati per euro investito e il maggior costo di produzione dell’energia generata. Nel fare questo gli autori confrontano il valore dei sussidi erogati per unità di occupazione creata con lo stock di capitale registrato negli ultimi anni nel settore industriale e nell’intera economia. Come ha correttamente rilevato Alessandro Sterlacchini (“Green Jobs: ecco perché gli ecoscettici sbagliano”, su www.sbilanciamoci.org) si tratta di una comparazione concettualmente scorretta, un errore di metodo nella valutazione del costo-opportunità che viene normalmente censurato già nei corsi di economia di base. Sarebbe come dire che per far fronte alla domanda di energia si confronta la convenienza dell’investimento nell’eolico o fotovoltaico con quello della produzione di cemento o di cibo o di servizi turistici. È vero che si tratta pur sempre di settori che creano reddito e occupazione, ma rimane il fatto che investendo in questi ultimi la domanda di energia non viene soddisfatta. Se si confrontano invece settori tra loro paragonabili (le vere alternative alle rinnovabili sono le fonti fossili e il nucleare) e si valuta l’opportunità di dirottare i sussidi verso i settori energetici tradizionali si verifica invece che con questi l’effetto occupazionale sarebbe drammaticamente in perdita (oltre agli svantaggi ambientali).

Se quello sottolineato da Sterlacchini è il principale difetto metodologico, molte altre sono le assunzioni inaccettabili o le manipolazioni illecite presenti nello studio dell’Istituto Leoni. Lo stock di sussidi percepiti dagli investitori non può essere fatto coincidere tout court con lo stock di capitale nei settori interessati (i valori degli investimenti per occupato nell’eolico e nel FV sono disponibili e ben lontani da quelli utilizzati) né è lecito ipotizzare che il valore degli incentivi rimanga inalterato fino al 2020. Anzi fin dall’origine erano destinati a essere rimodulati nel tempo, rimodulazione ora definita e corrispondente a una riduzione media del 15-27% entro il 2013 e a un’ulteriore rivisitazione nel 2012 alla luce dell’evoluzione dei mercati.

Altre assunzioni assai discutibili consistono nell’adozione di un parametro di produzione di energia rinnovabile per MW installato inferiore di oltre la metà al reale a causa di un’inesperta interpretazione e interpolazione dei dati Terna sulla produzione da rinnovabili nell’ultimo anno (nel caso del FV è particolarmente stridente la differenza tra il valore assunto di 447 kWh/kW contro il reale valore medio italiano di 1.150 kWh/kW) e nell’estensione – a tratti implicita – dei risultati validi per l’eolico e il FV a tutte le FER e in certi momenti all’intera green economy, trascurando che per esempio gli interventi di efficienza energetica edilizia nelle costruzioni (settore non certo capital intensive), anch’essi sussidiati, comportano riduzioni del costo della bolletta energetica che bilanciano in buona parte i costi del kWh rinnovabile.

L’insieme di queste assunzioni discutibili conduce a risultati aberranti, come un esagerato valore di stima del capitale investito per occupato e un elevato prezzo dell’energia prodotta, a effetti depressivi sui bilanci familiari e sull’industria a partire dai settori energy intensive per giungere infine alla sopravvalutazione degli effetti negativi sull’intera economia con sottostima dell’incremento occupazionale netto e dell’efficacia degli incentivi. Non è dal confronto con queste posizioni che si può far fare un passo avanti alla valutazione delle politiche pubbliche in materia di energia e green economy di cui invece vi è una forte necessità. Occorre invece confrontarsi con le valutazioni e le preoccupazioni avanzate da quegli studi (il box a pag. 70 riporta un breve elenco) che, accogliendo o confermando le stime correnti sui potenziali di crescita delle rinnovabili, dell’industria e dell’occupazione collegati, si interrogano se sia sufficiente la presenza di sussidi pubblici per innescare processi di crescita interna dei settori interessati e di dinamiche occupazionali positive anche sotto il profilo qualitativo del lavoro e di incremento della produttività.

PROBLEMI APERTI

Sono riflessioni particolarmente importanti per definire le condizioni, le politiche di accompagnamento e le misure necessarie per rendere effettivi i benefici potenziali e che ruotano intorno a quattro principali nodi problematici:

i costi della lotta ai cambiamenti climatici rischiano di influenzare lo sviluppo economico e il benessere nei Paesi in via di sviluppo, dove sono più limitate le risorse tecnologiche, finanziarie e professionali per affrontare la sfida. Nel suo studio, l’ILO mette in evidenza che i settori economici a maggiore intensità di carbonio coinvolgono oggi circa il 38% dell’intera occupazione mondiale, un grosso segmento ovviamente più esposto ai possibili effetti negativi settoriali della transizione. Peraltro la conversione verso produzioni a basso impatto climatico rappresenta un’opportunità occupazionale anche maggiore se le misure adottate (carbon tax, sistemi ETS, introiti fiscali, ecc.) genereranno risorse destinabili alla riduzione del prelievo fiscale sul lavoro, a sostenere politiche di stimolo della domanda e dell’innovazione e se si accompagneranno alla contemporanea riduzione dei sussidi alle fonti tradizionali, fossile e nucleare. Gli effetti di una corretta applicazione della carbon tax potrebbe portare – nelle stime dell’ILO – entro il 2014 a un aumento globale degli occupati dello 0,5%, ovvero 14,3 milioni di nuovi posti di lavoro. Ciò a condizione che le politiche di stimolo siano coordinate a livello internazionale al fine di evitare effetti distorsivi su specifici comparti e singole economie; le politiche verdi potrebbero in qualche caso generare problemi di iniquità sociale e di genere a causa del fatto che i costi di transizione o dei nuovi beni e servizi possono pesare di più sui redditi più bassi e sui Paesi più poveri già oberati dai costi delle trasformazioni tecnologiche necessarie. In questo senso le politiche di cooperazione internazionale e aiuto allo sviluppo fanno parte delle politiche di stimolo alla green economy;

occorre valutare la qualità dei posti di lavoro creati, ovvero le azioni di miglioramento delle condizioni di lavoro e delle garanzie per i lavoratori. A fronte di un settore economico in vorticoso sviluppo rimane spesso in ombra il problema di come garantire alle nuove figure professionali un lavoro stabile e qualificato, non solo nei Paesi in via di sviluppo, anche a fronte del forte scarto tra occupati temporanei (costruzione e installazione dei sistemi) e quelli permanenti (esercizio e manutenzione). Come afferma il gruppo di ricerca “Good Job First” in “High Road or Low Road? Job Quality in the New Green Economy” «… finora il dibattito pubblico ha dato per scontato che il green job sarà buona occupazione da classe media. …Nel Rapporto noi testiamo questa assunzione e dimostriamo che non è sempre valida. La nostra ricerca (diversi settori, compresi i settori manifatturieri dei componenti per le tecnologie eolica e solare, le costruzioni a elevato rendimento energetico e il riciclaggio) evidenzia le sfide rilevanti che abbiamo ancora di fronte per conseguire buoni green-job e anche le molte opportunità per averli». Tra queste, la disponibilità delle imprese verdi nell’intrattenere rapporti di collaborazione corretti e nello sperimentare condizioni di lavoro più avanzate, la possibilità dei decisori politici di connettere i sussidi con il rispetto di elevati standard di protezione del lavoro, la possibilità di sperimentare avanzate partnership locali tra le imprese, i lavoratori e le comunità per massimizzare le ricadute positive sul territorio;

occorrono adeguatezza delle figure professionali disponibili e misure idonee a promuovere la qualificazione o riqualificazione professionale dei lavoratori. Gli interventi per favorire la qualificazione e la ri-qualificazione degli occupati in funzione delle nuove mansioni e delle nuove specialità sono imprescindibili accanto al rilancio della spesa nell’istruzione, nella formazione e nella ricerca;

il mantenimento e la stabilizzazione su orizzonti temporali adeguati degli incentivi appare essenziale ai fini del consolidamento delle rinnovabili non meno delle politiche industriali necessarie per trattenere e massimizzare le ricadute positive in termini di nuove imprese nei segmenti strategici della catena del valore, la crescita dei segmenti a più alto valore aggiunto, il miglioramento della capacità di competere nei mercati di esportazione e nelle piattaforme dell’innovazione. La spesa pubblica nei settori infrastrutturali collegati alle nuove energie (modernizzazione delle reti di distribuzione, in particolare le smart grid, potenziamento dei servizi di trasporto pubblico, sostegno all’edilizia pubblica e residenziale sociale, ecc.) si dimostra essere in tutte le analisi e previsioni uno strumento più efficace ai fini del rilancio dell’economia rispetto a misure di liberalizzazione o detassazione generalizzata.

Per quanto riguarda l’Italia, lo studio Iefe – Bocconi del 2009 ricorda che: «Lo sviluppo industriale e di crescita dell’occupazione dipenderanno … dalla reale capacità dell’Italia di cogliere le opportunità offerte dal nuovo quadro delle politiche energetiche e di non essere un sistema produttivo passivo e importatore dei sistemi e apparati. … Affinché ciò si realizzi è necessaria un’azione concertata tra forze produttive e soggetti istituzionali, finalizzata non solo a perseguire l’obiettivo di politica energetico-ambientale ma a mettere in atto le opportune leve sinergiche di politica industriale”. In concreto ciò significa sostegno alla ricerca e aiuto alle imprese, inserimento del Paese nelle traiettorie di sviluppo dell’innovazione tecnologica, sostegno alla riconversione dei siti produttivi, formazione e riqualificazione professionale degli addetti, azioni e politiche di accompagnamento per la creazione di impresa, semplificazione e trasparenza dei processi insediativi, stabilità e certezza delle misure incentivanti, e così via. Condizioni al momento assai difficili per il nostro Paese.
 

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