Le sabbie bituminose e il marketing del ‘petrolio etico’

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Le sabbie bituminose per alcuni sarebbero 'petrolio etico', perché vengono dal Canada e non dagli "stati canaglia". Intanto la Commissione europea temporeggia, con il rischio di favorirle considerandole al pari del petrolio convenzionale in teminie di emissioni. Ma l'impatto ambientale di questa fonte energetica  è devastante anche per la deforestazione e l'acqua.

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Per ottenerlo si producono da 3 a 5 volte più emissioni rispetto al petrolio convenzionale, lascia un deserto punteggiato di laghi tossici al posto della foresta boreale ed è il principale imputato per l’impennata di tumori registrata tra la fauna e gli abitanti delle zone di estrazione. É il “petrolio etico”. Questa l’incredibile definizione che alcuni commentatori e politici canadesi hanno coniato per tentare di sdoganare le sabbie bituminose, grande risorsa nazionale e ultima spiaggia delle fonti fossili: la forma di greggio non convenzionale con i più alti costi di estrazione, sia economici che ambientali.


Il ragionamento, ammantato di un (finto) realismo “anti-ideologico”, per cui le sabbie si meriterebbe l’etichetta di “petrolio etico”  lo si può leggere nell’ultimo libro del conservatore canadese Ezra Levant intitolato appunto “Ethical Oil: The Case for Canada’s Oil Sands”. Quando si tratta di riempire il serbatoio, spiega Levant, “non si può contare sui pannelli solari, sulle pale eoliche o sulla fusione fredda: si tratta di scegliere tra petrolio saudita e petrolio canadese”. In sostanza di etico nel greggio estratto dalle sabbie bituminose ci sarebbe il fatto che proviene dallo stesso democratico Canada e non da nazioni estere politicamente instabili, “dittature, cleptocrazie e stati canaglia”. Questo secondo il commentatore dovrebbe bastare a convincere “i professionisti della protesta” che le sabbie bituminose dell’Alberta sono “l’equivalente, in fatto di petrolio, del caffè equo-solidale”.


Una campagna di marketing spregiudicata che arriva proprio mentre il Canada cerca di aprire le strade del mondo alle sue riserve potenziali, le più grandi al mondo dopo quelle dell’Arabia Saudita: 174 miliardi di barili di petrolio mescolato alle sabbie sotto le foreste dello stato dell’Alberta. Su queste pagine avevamo già raccontato delle pressioni verso l’Europa (Qualenergia.it, L’Europa aprirà le porte alle sabbie bituminose?) affinché il greggio dalle sabbie non venisse penalizzato nell’ambito della direttiva Qualità Carburanti (che obbliga le compagnie petrolifere e del gas a ridurre le proprie emissioni del 10% entro il 2020), bensì fosse considerato equivalente in termini di emissioni al greggio convenzionale.


L’aggiornamento su questa vicenda, giunto attraverso Reuter  ieri, segna una temporanea vittoria del fronte pro-sabbie. Considerando solo l’estrazione, un barile di greggio dalle sabbie comporta dalle 3 alle 5 volte più gas serra rispetto al petrolio dai pozzi (o convenzionale); i 12 studi commissionati a livello europeo (che calcolano le emissioni dall’estrazione fino alla combustione compresa) invece stimano per il petrolio da tar sands attorno ai 107 grammi di CO2 per megajoule, contro gli 85,5 del greggio convenzionale. Ciononostante ieri la Commissione ha deciso di prendersi un altro anno di tempo per stabilire se considerare, ai sensi dell’applicazione della direttiva, il petrolio dalle sabbie bituminose alla pari di quello convenzionale. Come ha protestato il verde olandese Bas Eickhout “sono previsti investimenti per 379 miliardi di euro nelle sabbie bituminose. Se la CE non manda un segnale ora stabilendo il valore (in termini di emissioni, ndr), diamo agli investitori il messaggio sbagliato che possono proseguire”.


Insomma è proprio questo il momento in cui si decide il futuro di questa fonte energetica controversa, che sarà sempre più centrale con l’esaurirsi delle riserve di greggio convenzionali, decidendo quindi se gli effetti collaterali che comporta sono accettabili o meno. Sembrano averlo capito sia gli ambientalisti come Eickhout che chi in Canada ha iniziato la propaganda pro-sabbie.
Risulta dunque utile ricordare gli impatti su clima ed ambiente di questo “petrolio etico” (si veda anche la serie di articoli apparsi su Qualenergia.it).


In allegato pubblichiamo l’ultimo breve report del’ong ‘Campagna per la riforma della Banca Mondiale’, che, in italiano, riassume le problematiche legate a questa fonte, la stessa tra l’altro che anche la nostra Eni (Qualenergia.it – Investimenti discutibili dell’Eni in Congo) si appresta a sfruttare in Congo e nella quale molte grandi banche (elencate nel documento) continuano ad investire nonostante i timori crescenti di molti azionisti (Qualenergia.it, Le sabbie bituminose non piacciono agli azionisti Shell).


Una rapida scorsa al documento è istruttiva e fa scoprire come quello delle emissioni (nel 2007 il Canada ha rilasciato in atmosfera il 26% di gas serra in più rispetto al 1990, e nel 2009 superava del 34% gli obiettivi imposti dal Protocollo di Kyoto) non sia affatto l’impatto più pesante legato all’estrazione delle sabbie. Oltre alla deforestazione che sta causando in Alberta, l’industria delle sabbie consuma e inquina quantità enormi di acqua: 539 milioni di metri cubi di cui solo il 5-10 % torna a scorrere nel fiume Athabasca senza tracce di inquinamento. Dagli stagni colmi di acqua e composti tossici che l’estrazione lascia al posto della foresta boreale, passano al terreno milioni di sostanze inquinanti diverse.


Nelle acque dell’Athabasca – notizia rimbalzata anche sui giornali italiani – si trovano pesci deformi e “con tumori grossi come palle da tennis”. Le conseguenze per gli uomini? Per ora si sa ancora poco ma a Fort Chipewyan – segnala il report – sulle rive del fiume e a valle di numerose miniere di sabbie bituminose, si ammalano di tumore il 30% in più rispetto alla media nazionale e in molti soffrono di gravi deficienze al sistema immunitario. Un prezzo un po’ alto da pagare, anche se si tratta di di petrolio “eticamente certificato”.

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