Clima d’America (prima parte)

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Global warming e rinnovabili nell'epoca di Obama. Una situazione interna molto diversificata. In questa prima parte dell'articolo gli incontri con il Centro per la nuova sicurezza americana, con lo staff democratico alla Commissione dell'Energia del Senato Usa e i conservatori della Fondazione Heritage, e con Todd Stern del Dipartimento di Stato. Un reportage dagli Usa di Sergio Ferraris per la rivista QualEnergia.

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Agli occhi esterni di osservatore eu¬ropeo la posizione degli USA in fatto di cambiamenti climatici e rinnovabi¬li potrebbe sembrare incomprensibi¬le specialmente se si considera il fatto che in questa materia proprio l’amministrazione Obama, con tutto il carico di aspettative che ha generato, sembra aver delu¬so: a Copenhagen la posizione USA è stata quella di un rinvio, mentre di recente la timida apertura verso il nucleare, con due reattori, e l’autorizzazione delle trivellazioni in Atlantico, giusto due settimane prima del disastro della Louisiana, hanno fatto gridare al tradimento da parte dell’opinione pubblica eu¬ropea più sensibile all’ambiente. Le cose, per quanto riguarda gli USA, sono più complicate di quanto si pensi e forse anche per questo motivo l’amministrazione Obama ha organizzato per un gruppo di giornalisti europei un “Climate Change Tour” che ha fatto tappa a Washington per una serie di incontri isti¬tuzionali, rigorosamente bipartisan, per poi approdare in Co¬lorado dove in una manciata di miglia sono concentrare molte delle realtà a stelle e strisce attive su rinnovabili e clima.

Potrebbe sembrare quasi impossibile ai nostri occhi, ma il riscaldamento globale negli Stati Uniti preoccu¬pa anche le forze armate. È questa la prima scoperta, in verità non del tutto nuova visto che qualche tempo addietro è uscito un rapporto sull’argomento redatto dal Pentagono. Veniamo a saperlo quando ci sediamo per un briefing al Cen¬tro per la nuova sicurezza americana (Cnas), un think tank che «sviluppa politiche forti, pragmatiche e basate su solidi principi per la sicurezza nazionale e la difesa», recita una loro brochure. «Il nostro approccio circa il cambiamento climatico si basa sulla geopolitica, sulle risorse energetiche, sia sul breve che sul lungo periodo – ci dice Christine Parthemore, ricerca¬trice del Cnas – Per quanto riguarda gli aspetti concreti, l’Af¬ghanistan è uno degli esempi. Abbiamo investito nello sviluppo dell’agricoltura per risollevare l’economia, ma i cambiamenti climatici potrebbero annullare gli effetti dell’investimento, con ripercussioni geopolitiche».

Ma non c’è solo questa questione all’ordine del giorno per il Cnas, i cui ricercatori definiscono il riscaldamento globale una materia rilevante per la sicurezza nazionale, una delle sfide del 21° secolo e vanno oltre, denun¬ciando il fatto che c’è un forte divario tra ciò che afferma la scienza e le politiche della sicurezza statunitense. Tradotto: i cambiamenti climatici esistono, il Cnas collabora con l’Ippc e sa che i loro effetti influenzeranno la sicurezza Usa. La lo¬gistica militare, le missioni, l’atteggiamento delle popolazioni locali, sono tutti aspetti che saranno influenzati dal riscalda¬mento globale e che potrebbero compromettere e modificare le missioni. L’erosione costiera potrebbe avere riflessi negativi sulla logistica della Marina, ma sono i cambiamenti so¬ciali indotti dalle pressioni ambientali in zone strategi¬che, come Afghanistan, Ye¬men e Cina a impensierire di più i ricercatori del Cnas.

Sul fronte delle possibili soluzioni ai cambiamenti climatici al Cnas non si pronunciano più di tanto e si limitano a dire che non ci sono stati strappi tra l’amministrazione Bush e quella Obama. E la logica della quale ci parlano fa trasparire il fatto che al Cnas si limitano a registrare l’esistenza del problema, ed è già un enorme pas¬so avanti, visto che le soluzioni spettano alla politica. A loro basta indirizzare il Dipartimento della Difesa alle politiche di adattamento e mitigazione nelle zone dove operano le forze armate. Inoltre c’è il discorso delle risorse energetiche che tro¬vano ampio spazio nelle analisi del Cnas, visto che riguardano la sicurezza nazionale e il Pentagono, si sa, è un grandissi¬mo consumatore d’energia, uno dei primi al Mondo. Infine è strategico garantire le risorse agli USA oppure salvaguardarle da un utilizzo eccessivo? Si tratta di una domanda che sorge spontanea visto che tra le aree critiche il Cnas ha inserito l’An¬tartico. Comunque la si pensi, in definitiva, la buona notizia è che per il Dipartimento della Difesa i cambiamenti climatici esistono e sono un problema.

Dopo le forze armate è stata la volta delle istituzioni fede¬rali, con il loro contorno di lobby che svolgono a Washington la loro opera alla luce del Sole. Cosa c’è dietro al “tradimento” di Copenhagen che per noi europei, carichi di aspettative ver¬so Obama, è stato particolarmente pungente? Quali sono le resistenze degli Stati Uniti a imboccare con forza la via della riduzione delle emissioni? E quali sono le forze che spingono e quelle che frenano? Queste alcune delle domande che abbia¬mo posto ai nostri interlocutori. Risposte che anche da parte democratica non sono state esaustive, anche se alcuni segnali li abbiamo colti dalle parole di Jonathan Black, membro dello staff democratico alla Commissione dell’Energia del Senato Usa: «Applicare un meccanismo come quello del cap and tra¬de negli USA è complicato e stiamo studiando un sistema che coinvolga in maniera diversa nella riduzione delle emissioni ogni settore a partire da quello dei trasporti. – afferma Black – Oggi bisogna capire che la priorità è l’economia interna e per questo motivo non dico che sia impossibile fare una legge sui cambiamenti climatici, ma di sicuro è complicato».

Certo che se si raffronta l’azione degli USA con la prospettiva europea, dove il target di riduzione dei gas serra è del 20%, questa sembra minimale. «Non stiamo discutendo degli obiettivi in questa fase. – prosegue Black – Ora stiamo costruendo le infrastrutture per la riduzione delle emissioni». Da questo punto di vista bisogna dire che una fetta importante degli stimoli anticrisi di Obama sono stati indirizzati alle tecnologie “verdi”, ma questa prudenza in realtà cela difficoltà più grandi.

E per trovare una conferma di ciò è bastato fare poche centinaia di metri dal Senato e arrivare nel nido delle “aquile conservatrici”, la potente Fondazione Heritage – che significa patrimonio, ma in gergo ecclesiastico anche popolo eletto – dove di cambiamenti climatici, riduzione dei gas serra e incentivi alle rinnovabili proprio non vogliono sentire parlare. E il match tra i dodici giornalisti europei, tutti schierati sulla posizione dell’Unione Europea, e i membri della Heritage è stato acceso e polemico. «Il problema climatico? Sopravvalutato ed esagerato. Il Rapporto Stern? Una sciocchezza. Il Picco del petrolio? Se ne parla da tanto ma non lo si raggiunge mai». È un fiume in piena David W. Kreutzer, ricercatore di economia energetica e cambiamenti climatici della Heritage, per il quale è assolutamente impensabile che si tocchi il dogma del libero mercato. «Il bilancio tra i costi e i benefici di qualsiasi sistema che imponga il pagamento, o peggio degli obbiettivi di riduzione delle emissioni, è assolutamente negativo. – ribatte con forza Ben Lieberman, analista senior della fondazione – Non ci sono alternative sul medio periodo al sistema energetico così come lo conosciamo oggi e le rinnovabili continueranno ad avere il ruolo minoritario che possiedono ora, mentre per l’efficienza energetica non sono necessari incentivi, poiché sarà introdotta dal mercato “naturalmente” mano a mano che sarà matura». E ciò è anche comprensibile se si pensa che l’Heritage ha tra i propri finanziatori la Exxon Mobile. Sul banco degli imputati, inoltre, finisce anche l’Agenzia governativa per l’ambiente, l’Epa, rea di aver solo immaginato con una nota di inserire la CO2 tra gli inquinanti.

«Si tratta dello stesso gas che emettono gli umani e che permette alle piante di vivere. – tuona Lieberman – Questo è un tentativo da parte dell’Epa di dare il via a una nuova e costosa regolazione». E per quanto riguarda il nucleare alla Heritage dicono: «Il nostro sostegno all’energia nucleare sta a significare che teniamo all’ambiente. – afferma il responsabile per l’energia atomica della Heritage, Jack Spencer – Si tratta della fonte meno inquinante che però deve essere sottoposta alle regole del libero mercato». Ma alla domanda circa il fatto che proprio un eccesso di libero mercato ha provocato la crisi finanziaria, la risposta di Spencer è lapidaria: «Questo non è il mio campo». Se si pensa che l’Heritage è una delle fondazioni più ascoltate dai conservatori statunitensi ci si può rendere conto di quanto sia difficile, con questi argomenti, il cammino politico della protezione del clima negli States. Toni più pacati al Dipartimento di Stato dove Todd Stern, incaricato speciale per i cambiamenti climatici, liquida l’Heritage dicendo: «non la pensiamo alla stessa maniera. Di sicuro abbiamo problemi dovuti alla crisi, ma i cambiamenti climatici sono una nostra priorità. È il momento di avviare una trasformazione dell’economia verso il “green” e i 30 miliardi di dollari che abbiamo investito ne sono una prova. – ribadisce Stern che aggiunge – È chiaro, però, che la Cina è un elemento importante per qualsiasi accordo sul clima, perché al contrario delle nazioni sviluppate ha una curva delle emissioni in crescita. Anche per questa ragione stiamo lavorando su un’ipotesi di accordo che sia simmetrica». Insomma, tra meccanismi complessi, resistenze, lobby di ogni genere e accordi internazionali sembra che Obama abbia parecchio da fare per sbrogliare la matassa del clima in patria e la partita, da ciò che si legge tra le righe, è ancora molto aperta.

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