Il Climate Bill presentato al Senato

Presentata al Senato la legge per tagliare al 2020 le emissioni Usa del 17% rispetto al 2005. Si tratta dell'American Power Act, un sistema cap-and-trade raffinato, che premia consumatori e green economy, facendo però grandi sconti all'industria inquinante. Impressionanti i regali a nucleare, carbone e petrolio inseriti per far passare il testo, cosa ancora niente affatto scontata.

ADV
image_pdfimage_print
È arrivato, finalmente. L’atteso disegno di legge che dovrebbe ridurre le emissioni degli Usa – il cosiddetto Climate Bill, ribattezzato American Power Act – ieri è stato presentato al Senato. Ora non resta che la votazione al Senato e gli Stati Uniti si aggiungeranno alle molte nazioni ad aver previsto per legge la riduzione delle emissioni.

Tutto ciò avverrà se ci saranno i voti dei 60 senatori su cui i proponenti contano, cosa tutt’altro che sicura dopo che i due democratici promotori, John Kerry e Joe Lieberman, sono stati abbandonati dal repubblicano che con loro aveva steso il testo, Lindsey Graham. Se la legge supererà anche l’ultimo ostacolo si potrà finalmente dire “meglio tardi che mai e meglio poco che niente”, perché il Climate Bill come è stato presentato – ammette in un intervento su Grist.org, John Kerry – è una legge di compromesso, molto annacquata rispetto a quanto previsto dal programma di Obama e anche rispetto alla versione approvata alla Camera.

Vediamo cosa prevede (qui il testo e qui un’analisi a caldo del National Resource Defence Council): resta l’obiettivo nazionale portato dagli Usa a Copenhagen, entro il 2020 ridurre le emissioni del 17% rispetto ai livelli del 2005.

Entro il 2013 gli Usa invece dovranno tagliare la CO2 del 4,75% rispetto ai livelli del 2005. In seguito, per il 2030 del 42% ed entro il 2080 dell’83%. Resta anche il sistema di scambio delle emissioni di tipo cap-and trade: partirà nel 2013 e inizialmente interesserà solo il settore elettrico e le raffinerie (e solo dal 2016 altre industrie impattanti), avrà molti accorgimenti anti-speculazione (ad esempio le banche non potranno fare commercio di permessi ad emettere) e per mantener il prezzo della CO2 entro un certo range.

Cosa che non piacerà per niente alla Cina: per proteggere l’industria nazionale il Power Act prevede anche una sorta di tassa sull’import da paesi che non prevedano misure di riduzione delle emissioni. Altra concessione ai poteri economici, il massiccio ricorso ai meccanismi di compensazione permesso dal cap-and-trade: fino a 2 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno anziché essere ridotte alla fonte potranno essere compensate con progetti vari. E poi “sconti” vari alle industrie più pesanti che saranno premiate per i miglioramenti dell’efficienza anziché per la riduzione delle emissioni in assoluto.

I proventi della vendita dei permessi ad emettere torneranno per due terzi ai cittadini, inizialmente tramite le utility, che riceveranno permessi gratis il cui valore dovrà essere passato agli utenti sotto forma di sconti sull’energia o di interventi per l’efficienza energetica. Dal 2025 in poi, invece, direttamente ai cittadini sotto forma di sgravio fiscale. Il restante terzo di quel che lo Stato raccoglierà con il cap-and-trade andrà a promuovere l’economia low-carbon.

Insomma, un sistema di mercato per ridurre le emissioni sul modello europeo, che ne corregge molte distorsioni ma che è anche indebolito da molti sconti e da un obiettivo che in realtà significa solo un meno 3-4% considerando una baseline 1990: non adeguato a quel che servirebbe per fermare il global warming. Che l’American Power Act, lungi dall’essere la legge che gli ambientalisti avrebbero voluto, sia solo un piccolo passo avanti frutto di innumerevoli compromessi con i poteri economici ce lo ricordano d’altraparte le molte concessioni che contiene a favore di nucleare, carbone, petrolio e biocarburanti.

Ad esempio, l’uso dei biofuel è considerato dalla nuova legge sempre emission-free, a prescindere da quale sia l’impatto in termini di emissioni dei vari biocarburanti nel loro ciclo di vita. Il carbone viene premiato con 2 miliardi di dollari all’anno di finanziamenti per ridurre le emissioni e sviluppare la cattura della CO2. Impressionanti poi i regali fatti al nucleare: fondi di garanzia aggiuntivi, procedure autorizzative più snelle, possibilità di rifarsi dei costi di costruzione sugli utenti prima che la centrale sia pronta, fondi per la ricerca e – per 12 progetti esistenti – un’assicurazione sul “rischio regolatorio”: se l’autorità di controllo dovesse farli ritardare o annullarli, all’utility e ai costruttori spetterebbe un rimborso fino a 500 milioni di dollari per reattore, chiaramente a carico dei contribuenti.

Proprio mentre nel Golfo del Messico il petrolio continua a scorrere e si sta consumando uno dei più grandi disastri petroliferi della storia Usa (ieri il Parlamento Usa ha iniziato a discutere la proposta Obama di aumentare da 8 a 9 centesimi per barile l’imposta sulla produzione di petrolio, e di elevare il tetto sui risarcimenti), il Climate Bill proposto darebbe una spinta decisa a nuove trivellazioni in mare. La sostanza di quanto previsto in materia dal Power Act infatti è ben lontana da quel che sembrerebbe leggendo i titoli dei giornali, che mettono in evidenza la possibilità dei vari Stati di porre un veto alle trivellazioni a meno di 75 miglia dalle proprie coste.

Da una parte infatti la richiesta di veto è lunga e macchinosa: richiede che lo Stato in questione approvi una legge e che dopo presenti l’istanza al Governo federale; dall’altra gli Stati che ospiteranno nuovi pozzi off-shore saranno premiati con un ghiotto 37,5% dei ricavi fiscali dall’estrazione. Inoltre, nessun giro di vite su controlli e autorizzazioni in seguito al disastro, bensì avanti come prima con le trivellazioni in programma, comprese quelle in Alaska per questa estate.

In un momento come questo, il sostegno alle trivellazioni off-shore contenuto nel Power Act rischia però di essere un handicap per l’approvazione della legge (Qualenergia.it, Il disastro del Golfo del Messico, Obama e il climate bill ). Ad averlo capito è stato Graham; il repubblicano ha infatti ritirato il suo sostegno al testo al quale aveva contribuito, soprattutto per una questione di tempistica: (inizialmente non voleva che fosse discusso dopo alla legge sull’immigrazione) ora è contrario al fatto che venga presentato proprio mentre l’opinione pubblica è traumatizzata dal disastro petrolifero lungo le coste della Louisiana: qualche senatore degli stati costieri potrebbe non gradire le misure in favore dei pozzi in mare.

GM

 
 
13 maggio 2010
 

ADV
×