La classifica della competitività climatica

Nonostante il fiasco di Copenhagen il mondo si sta muovendo per ridurre le emissioni e la green economy pare in buona salute. Una classifica della lotta al global warming incrocia risultati e politiche: sul podio Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti, mentre l'Italia, nonostante buoni risultati è penalizzata da un impegno politico scarso.

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Una classifica dell’impegno e dei risultati nella promozione dell’economia a basso contenuto di carbonio: sul podio Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti, mentre il nostro paese, nonostante buoni risultati, è penalizzato da un impegno politico scarso. Nel complesso, a livello mondiale, la green economy è in buona salute, grazie alle misure prese per sostenerla dalla maggior parte dei paesi.

In India, ad esempio, i nuovi impegni del governo creeranno 1200 progetti di efficienza energetica, aprendo un mercato da 15 miliardi di dollari; la Germania ha già creato quasi 300mila posti di lavoro verdi e punta ad aggiungerne altri 400mila, Cina e Usa sono testa a testa per contendersi la leadership nell’industria delle energie rinnovabili.

Nonostante il fiasco dei negoziati internazionali e l’incertezza che ne è conseguita, nel mondo non si è restati con le mani in mano e si è continuato a spingere verso una crescita a basso contenuto di CO2. È quel che emerge dal Climate competitiveness index, il report pubblicato dall’UNEP (il programma ambientale delle Nazioni Unite) e realizzato dal think-tank AccountAbility (executive summary in allegato).

Uno studio in cui si valutano lo sviluppo dell’economia low-carbon e le misure prese per promuoverla nei 95 paesi che contano per il 97% nell’economia mondiale. Ne esce una classifica denominata “climate competitiveness” ossia “competitività climatica”, un parametro risultante dall’incrocio tra la “climate accountability” e la “climate performance”.

Con la prima si cerca di quantificare quello che potremmo definire “l’impegno” del paese: decisioni politiche, strategie per ridurre le emissioni, istituzioni, incentivi, sensibilizzazione della popolazione, ecc.; con l’indice “climate performance” si misurano invece “i risultati“: andamento delle emissioni, penetrazione delle rinnovabili, investimenti nella green economy e via dicendo.

Si nota allora che paesi come il nostro hanno un risultato mediocre in quanto a “competitività climatica” nonostante una ottima “climate performance”: nel caso italiano è scarsa la “climate accountability”, ossia l’impegno politico e le misure di sostegno. In generale però supporto politico e risultati procedono di pari passo: è il caso di Svezia, Danimarca, Germania, Giappone e Francia, tutti nell’angolo in alto a destra dello schema in cui si incrociano impegno e risultati.

Anche se in testa alla classifica della competitività climatica, come visto, troviamo molti paesi ricchi, la graduatoria, spiega lo studio, non è necessariamente legata ai livelli di reddito: le Filippine ad esempio hanno un ottimo risultato in quanto ad “accountability” e, grazie alla creazione di posti di lavoro verdi, anche nella “performance”; allo stesso modo, si chiarisce, paesi come Guyana, Cina, Mauritius e Sud Africa “stanno tutti costruendo efficaci strategie per la competitività sui settori low-carbon”.

L’impegno sulla questione clima, d’altra parte, si fa notare, “sta diventando un fattore decisivo nei dibattiti elettorali“: gli esempi si sono visti in Giappone, Brasile e nelle imminenti elezioni britanniche. In Australia e Nord America invece – segnala il report – c’è uno scollamento tra cittadini, politica e mondo degli affari, mentre in altre realtà come Scandinavia e Singapore è proprio la business community a trainare la lotta al global warming. I risultati migliori, ovviamente, si realizzano dove tutti gli stakeholders collaborano per ridurre le emissioni di gas serra.

 

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