L’Europa tra clima, green economy e obiettivi 2020

Nonostante la delusione di Copenhagen ora più che mai l'Europa deve impegnarsi sui suoi obiettivi per il clima. Anche per il bene della propria economia, visto che potenze come gli Usa hanno ormai superato il vecchio continente nell'industria "verde". Il nucleare? Rischia di rubare risorse all'energia pulita. Intervista a Jacqueline McGlade, direttrice dell'Agenzia europea per l'Ambiente.

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Copenhagen è stata una delusione, ma non per questo l’Europa deve rinunciare a fare da traino sulla lotta al clima: occorre favorire la messa in campo delle tecnologie pulite. Anche perché, se la diplomazia langue, la green economy è più vitale che mai e mentre il resto del mondo sta investendo in rinnovabili ed efficienza energetica, il vecchio continente rischia di essere lasciato indietro. Per l’economia europea sarebbe bene che i governi degli Stati membri non solo si impegnassero negli obiettivi comunitari su ambiente ed energia, ma puntassero addirittura a superarli. Scommettere sul nucleare, invece, rischia di sottrarre al settore dell’energia risorse che sarebbero meglio spese per fonti pulite e legate al territorio, come le rinnovabili.
Sono idee chiare quelle di Jacqueline McGlade, direttrice dell’Agenzia europea per l’Ambiente (Eea). Durante il suo ultimo soggiorno in Italia l’abbiamo incontrata e le abbiamo rivolto alcune domande.

Dottoressa Mc Glade, dopo la delusione di Copenhagen qual è lo stato del dibattito sul cambiamento climatico e quali a suo avviso le priorità da affrontare?
Quello che ha mostrato Copenhagen è che non è sufficiente per l’Europa cercare di porsi in posizione di leadership con le proprie azioni. L’Europa deve fare da traino, essere convincente, incoraggiare gli altri paesi a venirci dietro. Copenhagen ha rinforzato l’impegno europeo ad agire, ma non siamo ancora completamente consapevoli dell’effetto a cascata e delle responsabilità globali.
La Cop 15 ha fatto capire ai ministri dei vari paesi che il grosso del lavoro adesso consiste nel supportare e sviluppare non solo le tecnologie in se stesse, ma il modo in cui queste tecnologie vengono messe in campo.
C’è da aggiungere che molte persone oggi sono preoccupate che la crisi finanziaria possa frenare gli sviluppi nel campo dei cambiamenti climatici. Ma a uno sguardo attento appare chiaro che la crisi è arrivata proprio perché abbiamo accumulato un enorme debito ecologico e ambientale: abbiamo ampiamente sovrautilizzato le nostre risorse. Ora finalmente abbiamo iniziato a puntare su uno sviluppo diverso, su politiche di regolamentazione e un nuovo tipo di industria, molto più efficiente da un punto di vista di risorse utilizzate. Questo tipo di cambiamenti può essere enormemente d’aiuto.

È la fede nella green economy che caratterizza le più recenti politiche europee ed americane. Ma è davvero un cambiamento radicale o è solo green washing?
Ci sono nuovi indicatori usati in ambito finanziario basati su compagnie che hanno creato grosse rendite grazie a investimenti nella mobilità sostenibile, nell’industria low-carbon, nell’efficienza energetica. Questi indicatori dicono che chi ha fatto queste scelte sta ottenendo performance migliori di chi segue la strada del business as usual.
Va detto che una volta circa il 30-40% dei guadagni e delle azioni di queste compagnie era europea, mentre ora gli Usa ci stanno sorpassando. Questo dimostra che anche durante l’era Bush le società investivano in tecnologie low-carbon, anche se il governo continuava a dire “noi non crediamo nei cambiamenti climatici”. Non si tratta solo di green washing, ma di un reale cambiamento e veri profitti che faranno la differenza.

A Copenhagen il Clean Developement Mechanism ha subito molte critiche. Andrebbero trovate delle alternative?
Strumenti di questo tipo possono giocare un ruolo, ma non possono essere l’unico mezzo per risolvere il problema. A Copenhagen c’erano tantissime proposte per risolvere lo stesso problema. L’ideale sarebbe che non avessimo bisogno dei Cdm e investissimo invece nei paesi in via di sviluppo per il bene dei paesi in sé e per sé. Questa è la grande sfida dell’Europa: non limitarsi ai target che ci siamo dati, ma aumentare drasticamente le misure in modo che ci sia sempre meno bisogno dei meccanismi di compensazione.

Molti ritengono che il nucleare possa essere parte integrante delle strategie energetiche per il futuro. Qual è la sua opinione in proposito?
Nel settore nucleare esistono diverse tecnologie, ma tutte estremamente costose. E nessuna è ancora riuscita a superare il problema delle scorie. Ma la mia personale preoccupazione è che gli investimenti nel nucleare possano esaurire gli investimenti nel settore energetico e distogliere denaro da quella grande quantità di risorse “indigene” disponibili nei nostri territori. Queste energie, come le rinnovabili, costituiscono un potenziale su scala ridotta e localizzato, ma che porta le comunità molto vicino all’autosufficienza e all’efficienza energetica.

Il governo italiano punta a produrre entro il 2025 il 25% della propria energia da nucleare, nonostante un referendum in cui i cittadini si sono dichiarati contrari.
Molti governi pensano di utilizzare il nucleare come parte del mix all’interno delle quote di energia verde, ma credo sia importante che ogni governo apra un confronto e un dibattito con i propri cittadini. Gli europei oggi vogliono sapere da dove viene l’energia che consumano. Molte compagnie energetiche si stanno rendendo conto che c’è bisogno di un sistema di etichettatura delle fonti energetiche. Questo sistema permetterebbe ai cittadini di fare le proprie scelte con consapevolezza e potrebbe cambiare il loro punto di vista sull’energia.

Intervista a cura di Maurita Cardone

24 marzo 2010

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