Il necrologio di Copenhagen

I paesi che hanno comunicato i propri nuovi tagli delle emissioni, secondo quanto previsto dall'Accordo di Copenhagen, non hanno cambiato di molto lo scenario pre-summit. Per Greenpeace, la Cop 15 può essere ufficialmente giudicata un flop. Stando alle dichiarazioni di riduzione, si arriverebbe comunque ad aumento delle temperature compreso tra 3 e 3,5 °C con rischi molto seri per l'economia e le popolazioni. Le speranze sono tutte per il vertice in Messico a fine anno.

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Entro il 31 gennaio i Paesi partecipanti al summit di dicembre della Cop15 dovevano comunicare i propri impegni di riduzione dei gas serra. Questo era il primo punto d’azione dell’Accordo di Copenhagen, che come sappiamo era solo un accordo politico e, comunque, non vincolante, ma che è sttao da tutti ritenuto fondamentale per iniziare a intraprendere un percorso capace di impedire un aumento della temperatura media globale oltre i 2 gradi.

Particolari novità, dal sito dell’UNFCCC, non se ne rilevano, rispetto a quanto comunicato prima del summit di Copenhagen (Qualenergia.it – Tutte le proposte di riduzione delle emissioni), se non per alcuni paesi che si aggiugono nella lista (Croazia, Kazakhstan, Nuova Zelanda) e qualche impegno leggermente più significativo ad esempio per Cina, India e Giappone.
Per Greenpeace Italia questo è il segnale che “è fallito l’obiettivo dell’accordo di Copenhagen e che questo accordo non è servito a far cambiare idea a chi sta uccidendo il clima del pianeta”. Il tenore di questa posizione è anche quello di un breve report (‘Il Terzo Grado’) in cui Greenpeace International spiega perché questa situazione ci porterà ad un aumento di temperature stimabile in +3/3,5 gradi centigradi (vedi anche Qualenergia.it – La strada per i 2 gradi è ancora lontana).

“Questo accordo è una presa in giro per prendere tempo – ha detto Alessandro Gianni’, direttore delle campagne di Greenpeace – e solo un cinico esercizio di pubbliche relazioni per riciclare proposte vecchie, inutili e pericolose”. La posizione dell’associazione ambientalista è dura: l’accordo di Copenhagen si è dimostrato “una pericolosa azione di greenwashing per spacciare come azione efficace la trita ripetizione di obiettivi che di fatto portano ad una riduzione delle emissioni per i Paesi industrializzati solo dell’11-19% (6-14% senza crediti forestali)”.

Per giungere all’obiettivo dei 2 gradi di aumento massimo, le riduzioni di emissioni di gas serra, rispetto al 1990, devono essere del 40% entro il 2020. Anche i Paesi in via di sviluppo “devono ridurre le emissioni del 15-30% rispetto al trend attuale, sempre al 2020”, avverte Greenpeace. Un processo, conclude Gianni, che “deve essere sostenuto da nuovi investimenti, per un totale stimato in 140 miliardi di dollari l’anno per consentire a questi Paesi di passare a tecnologie pulite e di resistere al meglio ai terrificanti scenari che il disastro climatico ci prospetta”.

Anche secondo le Nazioni Unite questi impegni sono troppo bassi. Tuttavia Janos Pasztor, consigliere per il clima del segretario generale Ban Ki-moon, ha dichiarato che questa deve considerarsi la base da cui partire: “il lato positivo è che per la prima volta abbiamo un obiettivo chiaro verso il quale tutti dovremo lavorare”, ha affermato.

Il breve report di Greenpeace International, “The Third Degree” (pdf – versione sintetica in italiano), sopra accennato, esamina le implicazioni degli impegni di riduzione di emissioni di gas serra comunicati dalle Parti dell’UNFCCC prima del Summit di Copenhagen e ne descrive le conseguenze sull’incremento delle temperature e gli impatti conseguenti. Innanzitutto si afferma che questi impegni sono del tutto insufficienti rispetto all’obiettivo di contenere l’incremento entro i 2°C (gli Stati insulari e i Paesi meno sviluppati considerano che un incremento addirittura superiore a 1,5°C sia già problematico per la loro sopravvivenza).
Si legge nel documento che le attuali incertezze nelle previsioni economiche mettono addirittura in dubbio che rispetto allo scenario “business as usual” (BAU) le riduzioni indicate dai paesi industrializzati siano reali: esse potrebbero avvenire indipendentemente da specifiche politiche di tutela del clima.

Nel complesso, stando alle dichiarazioni prima di Copenhagen, la diminuzione delle emissioni dei Paesi industrializzati (0-1,2 giga-tonnellate – Gt – al di sotto del BAU), combinata agli impegni volontari di riduzione dei paesi in via di sviluppo (1,5-3,2 Gt; inclusa la riduzione della deforestazione), porterebbe ad un verosimile aumento delle temperature compreso tra 3 e 3,5°C (se le proiezioni economiche sono accurate).

Rispetto ai valori precedenti l’era industriale, la temperatura globale è già aumentata di circa 0,8°C e indagini recenti confermano che nell’emisfero settentrionale non ci sono stati periodi così caldi negli ultimi 1.300/1.700 anni. Il permafrost (suolo congelato da migliaia di anni nelle regioni artiche) ha cominciato a sciogliersi, come i ghiacciai continentali o le calotte polari. Stime autorevoli suggeriscono che il cambiamento climatico potrebbe essere responsabile di 300.000 morti l’anno, colpendo oltre 300 milioni di persone. Il cambiamento climatico è già realtà, ma aumentando le concentrazioni atmosferiche di gas serra anche i rischi aumentano. Molti scienziati ritengono che ci siano dei “punti di non ritorno” superati i quali alcuni cambiamenti potrebbero prodursi in modo rapido, con “salti” da cui sarebbe difficile tornare indietro in tempi brevi.
Stando alle informazioni scientifiche disponibili, queste sono le previsioni sugli effetti del cambiamento climatico:

+ 1,5°C
– effetti rilevanti sulla produzione alimentare, sul rifornimento idrico e sugli ecosistemi dell’Africa sub-sahariana e sugli Stati insulari;
– aumento delle alluvioni nei delta fluviali causati dalla combinazione dell’innalzamento dei mari e delle alluvioni dai fiumi;
– con un aumento tra 1,5 e 2°C si stima che fino ad altre 3 milioni di persone sarebbero a rischio di inondazione lungo le coste. L’accesso all’acqua potabile sarebbe un problema per 0,4-1,7 miliardi di persone.

+ 2-2,5°C
– possibile scongelamento, parziale ma irreversibile, dei ghiacci della Groenlandia e della calotta Antartica occidentale: potrebbe causare l’innalzamento del mare di alcuni metri;
– perdita del 20-80% della foresta pluviale amazzonica e delle sue specie: da “deposito” di CO2 l’Amazzonia si trasformerebbe in un “produttore” di CO2;
– diminuzione significativa della produzione di grano in India e di riso in Cina e, in genere, riduzione generalizzata dei raccolti anche a causa delle alluvioni lungo la costa, con un impatto grave su centinaia di milioni di persone;
– un riscaldamento di 2-3°C potrebbe portare all’estinzione del 30% delle specie animali e vegetali note.

+ 3°C
– ci potrebbe essere un aumento del 20% nella mortalità collegata al caldo in alcuni Paesi dell’Ue dove si registrerebbe un aumento tra sei e otto volte del numero di giorni particolarmente caldi;
– gli impatti negativi sulla produzione agricola potrebbero portare alla fame 550 milioni di persone, con fino a 1,3 miliardi di persone in stato di malnutrizione;
– si potrebbe verificare lo scioglimento quasi totale delle calotte in Groenlandia e nell’Antartide occidentale, oltre al superamento di molti altri “punti di non ritorno”.

Per il momento, ci fa capire Greenpeace, “possiamo scrivere il necrologio del presunto ‘Accordo di Copenhagen’ e chiedere che nel vertice del Messico a fine anno si giunga finalmente ad un Accordo Globale equo, ambizioso e vincolante che porti rapidamente ad una reale riduzione delle emissioni.

Altre informazioni sugli impatti dei cambiamenti climatici e sui cosiddetti punti di non ritorno possono essere trovati in un altro breve report di Greenpeace ‘Racing Over the Edge. New science on the Climate Crisis‘, pubblicato a maggio 2009.

 

a cura della redazione di Qualenergia.it

1 febbraio 2010

 

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