La delusione

  • 21 Dicembre 2009

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Due anni di negoziato e nel vertice chiave per il clima non è stato firmato nessun nuovo trattato, non è stato adottato nessun nuovo accordo, non è stato approvato nessun nuovo protocollo. L'amarezza dell'epilogo della COP 15 dal resoconto di Leonardo Massai.

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Due anni di negoziato, due settimane di lavoro massacranti, 16 ore di riunione plenaria da record (inziata alle 23,30 di venerdi 18 dicembre e conclusa alle 15,30 di sabato 19) per formalizzare l’accordo di Copenhagen (pdf).

Sgombriamo il campo da ogni equivoco e dalle inesattezze riportate dai media nazionali e internazionali, troppo frettolosi e per la maggior parte assenti nella lunga notte decisiva. A Copenhagen non è stato firmato nessun nuovo trattato, a Copenhagen non è stato adottato nessun nuovo accordo, a Copenhagen non è stato approvato nessun nuovo protocollo.
L’accordo di Copenhagen è uscito dal tavolo ristretto a cui hanno partecipato 25 paesi in rappresentanza di molti altri, ma non è stato approvato dalla 15esima Conferenza delle Parti (COP15) della Convenzione ONU sui cambiamenti climatici (UNFCCC) per l’opposizione netta e dichiarata di Tuvalu, Venezuela, Bolivia, Cuba, Nicaragua, Equador e Sudan.

In un sistema, quello delle Nazioni Unite, che funziona con la regola del consenso, l’opposizione di questo piccolo gruppo di paesi è stata sufficiente per mandare a rotoli l’adozione dell’accordo politico dei 25, ossia Stati Uniti, Regno Unito, Spagna, Sud Africa, Arabia Saudita, Sudan, Russia, Norvegia, Messico, Mauritius, Papua Nuova Guinea, Lesotho, Giappone, Corea, Indonesia, India, Grenada, Francia, Germania, Svezia, Colombia, Cina, Brasile, Australia, Gabon e (Commissione europea).

A Copenhagen, la COP15 ha semplicemente adottato una decisione che prende nota (“takes note”) dell’accordo di Copenhagen, vale a dire una mera dichiarazione politica allegata alla decisione. Tale decisione apre quindi una nuova strada nell’ambito del sistema UNFCCC e pone molti dubbi soprattutto dal punto di vista giuridico.

Si tratta, infatti, di un accordo politico non adottato dalla COP, ma appoggiato dalla maggioranza dei paesi e soprattutto dai paesi politicamente ed economicamente più potenti. Sta adesso al segretariato della UNFCCC decidere le modalità di adesione e la forma di tale accordo, lasciando molte incertezze in riferimento alla sua validità e attuazione (comunicato finale della COP15).

L’accordo di Copenhagen risponde alle esigenze di Cina e Stati Uniti (e in parte India) – i due paesi che escono vincitori del summit – e segna la morte politica del Protocollo di Kyoto, menzionato solo un paio di volte nell’accordo, di cui una nel preambolo.
Gli Stati Uniti e i paesi del cosiddetto «Umbrella Group» riescono ad evitare la formulazione di nuovi obblighi vincolanti di riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra per il periodo post-2012. Tuttavia, l’accordo prevede un ridicolo obbligo per i paesi industrializzati di registrare entro il 31 gennaio 2010 le modalità e azioni di mitigazione relative ad un impegno di riduzione dei gas ad effetto serra da definire. Inoltre, gli Stati Uniti hanno evitato ogni riferimento a verifiche internazionali dell’adempimento degli impegni presi.

La Cina è riuscita a tenere basso il profilo del nuovo accordo e si è decisamente opposta all’indicazione di una percentuale precisa di riduzione aggregata dei gas ad effetto serra da parte dei paesi industrializzati. In questo modo, molto probabilmente, ha ottenuto il silenzio dell’accordo su qualsiasi tipo di impegno da parte dei paesi emergenti più sviluppati.

L’accordo di Copenhagen istituisce il Green Climate Fund e indica uno stanziamento di fondi pari a 30 miliardi di dollari nel periodo 2010-2012 e 100 milioni entro il 2020. In questo modo è stato comprato l’assenso politico della maggior parte dei paesi emergenti. L’ambiguità di tale accordo è sottolineata dall’accoglienza piuttosto fredda riservatagli nell’infinita plenaria conclusiva dal segretariato della UNFCCC e dalla maggior parte dei paesi emergenti che non hanno perso l’occasione per ricordare che tale accordo non è stato adottato dalla COP15. Quasi a voler sottolineare una certa distanza da tale conclusione.

Imperdonabile l’errore politico di Obama e di molti altri leaders che subito dopo la fine della riunione dei 25 e ben prima dell’inizio della plenaria conclusiva della conferenza hanno dichiarato a tutti i media la conclusione e i dettagli del nuovo accordo, scavalcando tutto il processo negoziale UNFCCC e mandando su tutte le furie tutti quei paesi esclusi dal tavolo dei 25.

L’accordo di Copenhagen viola il Bali Action Plan, che aveva indicato nel 18 dicembre 2009 la data conclusiva per la definizione del nuovo regime di lotta ai cambiamenti climatici per la fast post-2012. Tuttavia, il mandato dei gruppi di lavoro in ambito Convenzione e protocollo di Kyoto viene esteso fino alla COP16 di Città del Messico, ma le speranze di un nuovo impegno internazionale di riduzione dei gas ad effetto serra serio e vincolante, in linea con gli ultimi dati scientifici, sono nulle dopo il fallimento di due anni intensi di negoziati e la riunione di 110 capi di stato e di governo

Tra gli sconfitti del summit merita una citazione la Danimarca, presidenza della COP15. Una sconfitta politica, segnata dalla vaghezza dell’accordo conclusivo e dall’assenza nelle conclusioni finali dei molti testi di decisione discussi e negoziati a Copenhagen in ambito Convenzione e Protocollo.
Una sconfitta organizzativa e d’immagine; il Bella Center si è dimostrato inadeguato ad accogliere migliaia di persone, i delegati hanno dovuto attendere anche 8 ore al freddo prima di entrare, i servizi igienici inadeguati. Per non parlare delle migliaia di rappresentati di organizzazioni non governative lasciati fuori; solo 90 gli osservatori autorizzati ad entrare nell’ultimo giorno del summit. Ma soprattutto, da evidenziare la pessima figura del governo danese. Il prossimo commissario UE al clima, Connie Hedgaard si è dovuta dimettere dalla presidenza COP a metà percorso e ha buttato al vento due anni di incontri e riunioni formali in giro per il mondo. Il primo ministro danese Rasmussen si è dimostrato totalmente inesperto e inadeguato a gestire la sessione plenaria conclusiva quando ha rischiato più volte lo scontro diplomatico e ha ridicolizzato il sistema negoziale UNFCCC davanti agli occhi imbarazzati e impotenti del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon e del segretario della Convenzione Yvo de Boer.

L’Europa esce da Copenhagen abbastanza ridimensionata (al tavolo ristretto oltre a Spagna e Svezia, presidenti del Consiglio UE, solo Francia, Germania e Regno Unito). Il risultato di Copenhagen ignora quasi completamente la politica e la legislazione comunitaria che richiede un impegno internazionale di riduzione dei gas ad effetto serra pari al 30% entro il 2020. Per non parlare dell’Italia, da tempo inesistente ed inaffidabile sulla scena internazionale ed europea in tema di politica climatica ed energetica.

Il summit di Copenhagen ci lascia con un foglietto politico di 3 pagine e tanta delusione ed amarezza, soprattutto nelle centinaia di delegati che hanno dedicato, come il sottoscritto, due anni di vita professionale – e spesso anche privata – ad un processo negoziale e ad un sistema di relazioni internazionali che escono notevolmente ridimensionati dalla capitale danese.

Leonardo Massai
[email protected]

21 dicembre 2009

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