Il global warming, sappiamo, non si ferma senza combattere la deforestazione, responsabile del 20% delle emissioni mondiali. Per questa ragione nell’ultimo vertice dell’Onu sul clima, tenutosi nel dicembre 2007 a Bali, si è pensato al meccanismo: il senso del Redd è rendere più redditizio non abbattere un albero e poter vendere la CO2 che questo accumula crescendo. Nella pratica la conservazione delle foreste già dal 2012, verrebbe equiparata a pieno titolo a un progetto Clean Developmente Mechanism (CDM), ossia quegli investimenti che riducono le emissioni garantendo crediti in termini di CO2.
Sarebbe allora un sistema adatto per conservare le foreste e la biodiversità trasferendo al contempo soldi ai popoli poveri che vi abitano: potrebbe arrivare a 30 miliardi di dollari all’anno il volume di crediti generato e, secondo uno studio pubblicato ieri dall’IUCN, per molti abitanti dell’Amazzonia o della foresta indonesiana diventerebbe più redditizio usufruire del Redd e conservare la foresta rispetto all’agricoltura “slash and burn” (taglia e brucia) attualmente praticata.
Solo che il Redd, con la piega che ha preso il testo discusso ieri a Copenhagen, rischia di produrre effetti perversi – a partire da un crollo del prezzo della CO2 sui mercati internazionali fino a mettere a rischio il diritto sulla terra dei popoli indigeni – e questo senza garantire una riduzione della CO2 significativa. Sono scomparsi dal testo, infatti, gli obiettivi di riduzione della deforestazione (prima si stabiliva di ridurla del 20%) e rimosse molte delle precauzioni per evitare ricadute negative.
“La deforestazione evitata, secondo il testo di ieri – spiega a Qualenergia.it, Sergio Baffoni, ex-direttore della campagna foreste di Greenpeace e animatore di Salvaleforeste.it – verrà calcolata con la differenza rispetto al ‘tasso di deforestazione necessario allo sviluppo’, cioè rispetto quanto un governo ritiene necessario tagliare per un adeguato sviluppo economico: si capisce quanto questa definizione sia aleatoria e non garantisca riduzioni effettive”.
Mancano poi nel testo molti elementi che mettano al riparo da diverse distorsioni: l’intero sistema di conteggio delle emissioni evitate resta vago e il rischio di truffe e corruzione è concreto, ci spiega Baffoni. Non ci sarebbero poi adeguate garanzie per le comunità indigene: il mercato dei crediti di carbonio porterà a una crescita del valore commerciale delle loro foreste, attirando nuove ondate di investitori e avventurieri. Esclusa dal testo, “a causa della pressioni di alcune lobby”, anche la clausola contro la conversione di foreste naturali in piantagioni, finita tra parentesi: in questo modo si aprirebbe la possibilità concreta di speculazioni, deforestando per poi piantare e incassare anche soldi con il Redd.
Ma la conseguenza di un Redd fatto male, come anticipato, potrebbero farsi sentire anche sul mercato della CO2: “Prevedendo di equiparare dal 2012 il Redd a un Cdm si farebbe crollare il prezzo della CO2 e si toglierebbero risorse agli altri investimenti per evitare le emissioni, dato che quello nella conservazione delle foreste a parità di carbonio conteggiato è di gran lunga il più economico.” Altra perplessità dell ex-direttore della campagna foreste di Greenpeace è la scelta di affidare la gestione dei progetti Redd alla Banca Mondiale (che ne ha già 14 in fase di avvio): ” è già responsabile di cattivi investimenti ad alta intensità di CO2 e che ha dimostrato lacune nel coinvolgimento nei progetti delle popolazioni locali”.
Insomma, molti gli aspetti non vanno nel Redd o nel modo in cui si sta delineando. Sarà con ogni probabilità una delle poche cose concrete che usciranno da Copenhagen: “gli interessi dei paesi poveri che dal Redd vedono una buona possibilità di guadagno, in questo caso sono convergenti con quelli dei paesi industrializzati che vi vedono un modo a buon mercato per compensare le loro emissioni”.
Aggiornamento ore 15.30, 16 dicembre: il testo negoziale sul Redd, ci dicono le nostre fonti, propio in queste ore è stato migliorato sull’aspetto della tutela delle popolazioni indigene e sull’incompatibilità delle piantagioni con i progetti. Tuttavia a causa dello stallo generale nei negoziati non parrebbe più così scontato che il meccanismo venga approvato già a Copenhagen.
GM
16 dicembre 2009