I paesi industrializzati mettono in pericolo l’accordo

  • 16 Dicembre 2009

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I paesi industrializzati non riescono ancora ad associare le questioni economiche con quelle ambientali. Tagli alle emissioni al 2020 inferiori in media di almeno il 20% rispetto al necessario, strategie furbesche sulla deforestazione, elargizione di pochi milioni di euro. I paesi emergenti e quelli più poveri restano sul piede di guerra.

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Il Wuppertal Institute nelle scorse settimane aveva indicato ai paesi industrializzati che le emissioni dovrebbero essere ridotte almeno del 40% entro il 2020 per riuscire a mantenere elevata la probabilità di rimanere al di sotto i 2 °C di aumento della temperatura. Al momento quello che i paesi ricchi stanno concedendo è un obiettivo medio inferiore del 20% e il divario è da ascrivere soprattutto agli obiettivi Usa che, in definitiva, puntano ad una riduzione del 4% rispetto al 1990, ma che sono la chiave di volta di un possibile accordo vincolante.
Alla luce di questi target e degli effetti che la crisi climatica potrebbe produrre in molte aree svantaggiate del pianeta, gli Stati delle piccole isole e i paesi meno sviluppati sono ormai sul piede di guerra e chiedono un impegno più severo da parte delle economie più avanzate in modo da mantenere l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5 °C e stabilizzare la concentrazione di CO2 in atmosfera al livello di 350 ppm (parti per milione). “Non siamo qui a Copenhagen per firmare la nostra morte”, hanno detto. Ad esempio, per molti paesi africani un aumento della temperatura media globale di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali potrebbe significare un aumento di 3,5 °C con danni irreversibili alle colture e alla disponibilità di acqua.

Secondo Wolfang Sterk del Wuppertal Institute, alcuni Stati industrializzati, prima della conclusione del vertice di Copenhagen, stanno mettendo sul piatto delle trattative alcune scappatoie. Una di queste riguarda le emissioni di gas serra legate all’utilizzo del suolo, ai cambiamento di destinazione d’uso della terra e alla forestazione, ambiti che vengono indicati dagli addetti ai lavori con l’acronimo LULUCF. Molti paesi industrializzati, dice Sterk, intendono determinare le emissioni LULUCF sulla base delle proiezioni piuttosto che su dati storici e molte di queste proiezioni fanno riferimento ad un aumento del tasso di disboscamento: se gli attuali tassi di tagli rimassero sotto i livelli previsti, allora agli Stati sarebbe riconosciuti crediti di emissione. Una posizione furba che trova contraria al momento solo la Francia.

Insomma, l’approccio al problema climatici dei paesi ricchi “è veramente inadeguato”, dice Sterk. Come scusa si additano le crescenti emissioni in Cina e in altri paesi emergenti, anche se molti di essi hanno programmi ambiziosi di riduzione delle emissioni. Ciò che sembra ostacolare un accordo vincolante e che i paesi industrializzati non riescono o non vogliono capire è che almeno ¾ delle “emissioni storiche”, dall’inizio cioè del periodo dell’industrializzazione, sono causate da loro. E anche oggi le emissioni procapite sono molto più basse nei paesi in via di sviluppo rispetto al Nord del pianeta: ciascun cinese emette 4,5 t di CO2 in un anno, un indiano 1,5, mentre un tedesco arriva a 10 e un americano a 20.
Un aspetto molto delicato, ma non trascurabile per le economie emergenti o più povere.

Per il responsabile di energia e clima del Wuppertal Institute tutto ciò illustra l’incapacità dei paesi industrializzati di assumere una vera leadership nella lotta al global warming, che esse affidarono alle Nazioni Unite nel 1992.
Una delle ragioni è che non sono ancora pronti ad accelerare sul clima perché non riescono ancora ad assimilare le questione economiche con quelle ambientali. Uno studio del German Advisory Council on Global Change (WBGU) chiariva che se nei prossimi anni non verranno prese misure decise e importanti non avremo più spazio di manovra per fermare il surriscaldamento del pianeta e saremmo costretti a negoziare target di riduzione eccessivamente elevati, probabilmente irrealizzabili.

Lumumba Di-Aping (nella foto), il direttore sudanese del G77, il gruppo dei paesi in via di sviluppo, ha accolto con sarcasmo la proposta dei paesi ricchi di spendere solo 10 miliardi di dollari per aiutare i paesi poveri ad affrontare i cambiamenti climatici, dicendo “non sono abbastanza neanche per comprarci le bare”.
Un quarto nuovo gruppo di paesi è dunque deciso a farsi sentire dagli altri tre: UE, Usa e Paesi emergenti (in particolare, India, Brasile e Cina). Che non avrebbero lasciato nulla di intentato lo si è capito subito dalle critiche arrivate con l’uscita della bozza danese.

Il rischio, segnalato in queste ore da Greenpeace, è che il summit di Copenhagen si stia asserragliando in una sorta di G8 o G20; in alcune stanze off limits verrà preso o tentato l’accordo, mentre di fatto si sta restringendo la possibilità di far partecipare i membri della società civile alla conferenza e dunque ad esporre con forza le diverse posizioni sul campo. Assisteremo ad alcune stantie dichiarazione finali che non troveranno nel tempo nessuna realizzazione concreta? Stavolta non sembra esserci la volontà di accettare un accordo verdino pallido. Insomma non basta il contentino arrivato fiinora dall’amministrazione Obama di 85 milioni di dollari all’anno per 5 anni da convogliare in un fondo a favore dei Pvs dedicato allo sviluppo di nuove tecnologie pulite. Troppo poco per salvare la faccia.

LB

15 dicembre 2009

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