Una chiara risposta al documento danese, per spostare i paletti della discussione dei prossimi giorni. Se la bozza dei padroni di casa, stesa assieme ad altri paesi industrializzati come Usa e Regno Unito, designava una rottura netta con il Protocollo di Kyoto, poneva un obiettivo per il 2050, ma non specificava l’impegno per le nazioni sviluppate al 2020, quella dei paesi emergenti propone l’opposto: prolungare la vita del protocollo fino al 2020 in modo che i paesi ricchi riducano per quell’anno le emissioni del 40% rispetto al 1990, ossia il margine della forchetta più elevato secondo il range indicato dall’IPCC per i paesi industrializzati.
Un accordo, quello che vorrebbero Cina, India e le altre nazioni emergenti, che permetterebbe di stare sotto i 2°C di aumento della temperatura media globale senza compromettere “lo sviluppo economico e lo sradicamento della povertà”, che restano “priorità indiscutibili”. Una proposta che comunque apre anche ad impegni di riduzione a carico dei paesi emergenti. Certo, come si legge nell’accordo, a patto che questi non siano soggetti a controlli e sanzioni internazionali.
Da sottolineare, invece, che, secondo la bozza BASIC, le riduzioni delle nazioni ricche dovrebbero essere domestiche, cioè senza contare sui meccanismi di compensazione che riducano la CO2 nei paesi poveri. Altro “no” ribadito dal documento è quello al cosiddetto “protezionismo climatico”: misure fiscali unilaterali che possano pesare sull’import da paesi che non prendano impegni di riduzione. Per la mitigazione e l’adattamento nel Sud del mondo, invece, si parla del fondo internazionale che dovrebbe essere creato. Anche qui netto il contrasto con la bozza danese: per gli “emergenti” non deve essere la Banca Mondiale a gestirlo, ma un organismo creato dall’UNFCCC.
Riguardo ai fondi per l’adattamento il documento BASIC riconosce la necessità di misure ad hoc per i paesi più vulnerabili, come le piccole isole e gli Stati più poveri dell’Africa: è il riconoscimento implicito della non omogeneità tra i paesi del “gruppo dei 77”. E forse anche un tentativo di ricompattare il blocco, nel quale nei giorni scorsi si era consumata una spaccatura tra i paesi più a rischio e gli altri: le piccole isole e molti Stati particolarmente vulnerabili (più di 100 paesi sui 192 che partecipano alla COP 15) sono più preoccupati dei paesi emergenti per i probabili impatti del global warming e spingono per un accordo più coraggioso, che stabilizzi la concentrazione di CO2 a 350 parti per milione e l’aumento di temperatura a 1,5°C. Un obiettivo però che oggi pare veramente utopico.
11 dicembre 2009