Il dopo Kyoto, ora o mai più

  • 7 Dicembre 2009

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Una costellazione geopolitica quasi ideale lascia sperare che dopo Copenaghen si trovi un accordo incisivo per limitare i danni del riscaldamento climatico. Efficienza energetica, energie rinnovabili e nuove tecnologie sono il mix vincente. Articolo di Gianni Silvestrini pubblicato sull'ultimo numero di Limes (Il clima del G2)

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La conoscenza del cambiamento climatico si è andata precisando nel corso degli ultimi vent’anni. Gli elementi sui quali si è consolidata una ragionevole certezza si possono ridurre a tre affermazioni.
È in atto un cambiamento del clima evidenziato da alcuni preoccupanti segnali, come l’aumento della temperatura media del pianeta e lo scioglimento dei ghiacciai.
Queste variazioni sono causate dall’incremento della concentrazione di una serie di gas, a iniziare dall’anidride carbonica di origine antropica. Occorre che si attivino immediatamente politiche drastiche di riduzione delle emissioni climalteranti per evitare conseguenze irreversibili e potenzialmente catastrofiche.
Non sono solo i rapporti dell’Ipcc (l’organizzazione che fornisce il supporto scientifico alle negoziazioni delle Nazioni Unite) a giungere a queste conclusioni, ma anche i documenti delle accademie nazionali scientifiche di tutti i paesi, dagli Usa alla Russia, dalla Cina all’Italia, che sottolineano la responsabilità dell’uomo e l’accelerazione in atto dei cambiamenti del clima. Alcuni vogliono però far passare l’idea che la comunità dei climatologi sia divisa sull’argomento. Sono illuminanti a questo proposito i risultati di uno studio effettuato recentemente negli Usa. Alla domanda se le attività umane stiano comportando un aumento della temperatura del pianeta, si riscontra una forte differenziazione in relazione alla conoscenza dell’argomento (grafico 1). La risposta è infatti positiva solo per il 58% del pubblico statunitense, sale all’82% per gli scienziati che si occupano di «Earth Science» e arriva al 97,4% per i climatologi che hanno pubblicato lavori scientifici sui cambiamenti climatici.

2. Come hanno reagito le istituzioni a fronte della preoccupazione del mondo scientifico? Considerando le affermazioni di molti importanti uomini politici di tutto
il mondo, possiamo dire che la consapevolezza della gravità della situazione ha raggiunto i «piani alti» e negli ultimi due anni si è ulteriormente rafforzata. La firma del Protocollo di Kyoto nel 1997 ha rappresentato un primo risultato, con la previsione di un impegno di riduzione del 5% nel periodo 2008-12 per i paesi industrializzati.
Le ricadute sono state contraddittorie. I 37 paesi che hanno preso impegni nell’ambito del Protocollo presentano emissioni inferiori del 16% rispetto al 1990, in parte grazie alle buone prestazioni di alcuni paesi come il Regno Unito o la Germania, e in parte come conseguenza del processo di deindustrializzazione delle economie dei paesi dell’Est dopo il 1990. Ma la crescita rapidissima della Cina e la mancata ratifica del Protocollo da parte degli Usa hanno contribuito a far crescere le emissioni mondiali al 2010 a valori molto superiori rispetto alle aspettative. La vera sfida si gioca quindi nella definizione del percorso post-Kyoto che necessariamente dovrà coinvolgere tutti i paesi.

Per definire gli obiettivi di lungo termine, si è andata rafforzando la scelta di considerare l’aumento di 2°C della temperatura del pianeta come incremento massimo accettabile rispetto ai livelli preindustriali. Questo riferimento è stato accettato prima dall’Unione Europea e poi, in occasione del G8 all’Aquila del luglio 2009, dai leader del Mef (Major Economies Forum) e si traduce nella concentrazione massima di CO2 in atmosfera espressa in parti per milione (ppm). Considerando le concentrazioni di tutti i gas climalteranti (eccettuati i Cfc già regolamentati dal Protocollo di Montréal sull’ozono) si esprime il valore radiante equivalente di anidride carbonica (CO2eq). Nel caso della soglia dei 2°C il valore da non superare corrisponde a 450 parti per milione in atmosfera di CO2eq. Ma per non superare questa soglia occorrerebbe avviare entro i prossimi dieci anni un’inversione di tendenza delle emissioni mondiali e quindi una loro riduzione.
Considerando che la concentrazione attuale di anidride carbonica è di 387 ppm, che arriva a 426 ppm CO2eq considerando anche gli altri gas serra, nell’arco di poco più di un decennio al ritmo di crescita di 2 ppm CO2/a avremo già raggiunto la soglia critica dei 450 ppm CO2eq.

Questo spiega la posizione di chi considera che l’obiettivo di limitare il riscaldamento atmosferico di soli 2°C sia irraggiungibile anche dimezzando le emissioni climalteranti mondiali entro il 2050.
Non stupisce quindi che ci sia chi contesti esplicitamente le discussioni in atto e sostenga che non si debba oltrepassare la soglia dei 350 ppm di anidride carbonica, un valore pari ai livelli di concentrazione in atmosfera presenti vent’anni fa.
Questa è, ad esempio, la posizione di James Hansen, il direttore del Goddard Institute for Space Studies della Nasa. Per raggiungere questo obiettivo occorrerebbero misure radicali come lo stop alla costruzione di qualsiasi centrale a carbone priva di sequestro della CO2 e l’accelerazione dell’assorbimento del carbonio dalla vegetazione e dal suolo. Il nuovo target simbolico sta riscontrando un certo interesse, tanto che si è creato un movimento organizzato attorno al sito 350.org. Sostengono questo obiettivo personalità come Adam Steiner, direttore esecutivo dell’Unep, l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, Vandana Shiva e Al Gore.
In sostanza, la comunità internazionale lavora per un obiettivo, 450 ppm, che, come vedremo in base alle posizioni dei principali paesi, difficilmente verrà raggiunto.
Questo stesso obiettivo però potrebbe risultare insufficiente a evitare conseguenze gravissime per il pianeta.
Al di là della maggiore o minore ambizione dell’obiettivo finale, rimane in ogni caso aperto il problema di come definire la ripartizione delle riduzioni tra i vari paesi. Un approccio semplicissimo è quello di puntare a un livello di emissioni pro capite uguale per tutti i paesi a una certa data, ad esempio la metà o la fine del secolo. Questa proposta, elaborata in Gran Bretagna negli anni Novanta, ha conquistato un consenso crescente non solo tra i paesi in via di sviluppo ma anche tra autorevoli leader del mondo industrializzato (grafico 2).

3. Una combinazione come l’attuale – con un presidente Usa che ha fatto della questione climatica una bandiera del proprio mandato, l’Europa più che mai decisa e su posizioni avanzate, il Giappone che ha messo una marcia in più e soprattutto con i significativi segnali di apertura da parte di importanti paesi del Sud del mondo – rappresenta una condizione irripetibile. Ora o mai più, verrebbe da dire.
In particolare, l’Europa ha deciso riduzioni unilaterali del 20% ed è disponibile a rivederle portandole fino al 30%. Il Giappone ha innalzato il suo obiettivo dall’8 al 25%. L’Australia è disponibile a tagli del 5%, innalzabili al 25% in caso di accordo internazionale.
Invece ci si avvia all’appuntamento di Copenaghen con una sensazione di inadeguatezza in parte attribuibile alle difficoltà interne negli Usa, dove è improbabile il varo del pacchetto clima entro la fine dell’anno. Le dichiarazioni dell’amministrazione Obama si scontrano con posizioni ostili sia tra i repubblicani che in settori importanti della società. Significativa la resistenza della potente Camera di commercio (con 3 milioni di imprese) che schizofrenicamente oscilla tra il riconoscimento della necessità di un accordo sul clima e la messa in discussione del ruolo dell’uomo nel riscaldamento del pianeta. In un suo recente documento 5 si legge, ad esempio, che un aumento di 3°C potrebbe avere effetti benefici per la riduzione della mortalità dovuta al freddo e che i popoli possono abituarsi a vivere in climi più caldi grazie alla diffusione della climatizzazione estiva…

A parte la posizione in via di definizione degli Usa, occorrerà vedere cosa faranno i paesi in via di sviluppo che giocheranno le loro carte solo a Copenaghen.
Intanto possiamo già registrare la positiva apertura manifestata dalla Cina, che per la prima volta a settembre si è dichiarata disponibile a discutere di contenimento della crescita delle emissioni. Il cambio di posizione della Cina deriva da un lato dalla percezione che i cambiamenti climatici causeranno gravi perdite all’economia del paese, dall’altro dalla consapevolezza che le sue industrie giocheranno un ruolo di primo piano nella green economy, come già sta avvenendo nei comparti del solare fotovoltaico, dove hanno assunto il ruolo di leader mondiale nella produzione di moduli, e dell’eolico. Segnali positivi vengono anche da altri paesi, come India, Indonesia, Brasile e Messico.
L’Africa, che emette solo il 4% dei gas climalteranti, rischia di essere una delle maggiori vittime del cambiamento del clima e si presenta a Copenaghen con la richiesta di un risarcimento di 460 miliardi di euro entro il 2020 per i danni causati dalle emissioni dei paesi ricchi.
Gli Stati Uniti sono dunque sotto pressione da parte dei paesi in via di sviluppo, che chiedono impegni coerenti con le indicazioni della comunità scientifica e vorrebbero che si seguisse l’impostazione del Protocollo di Kyoto. Un elemento importante nella trattativa tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo riguarda l’ammontare delle risorse che i primi saranno disposti a mettere a disposizione per favorire un trasferimento di tecnologie. Si parla infatti di 100 miliardi di euro/anno al 2020 per aiutare la decarbonizzazione dei paesi in via di sviluppo.

Al di là delle differenze nelle impostazioni, è trapelata una preoccupante mancanza di chiarezza su alcuni elementi chiave del post-Kyoto e sugli stessi obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra dei paesi industrializzati. Il capo negoziatore Usa Todd Stern ha esplicitamente dichiarato che gli americani non vogliono seguire l’impostazione del Protocollo di Kyoto, ma vorrebbero piuttosto pacchetti di misure definiti dai vari paesi. Uno degli elementi di preoccupazione degli Usa sono gli enormi crediti di carbonio, e quindi di dollari, accumulati dalla Russia grazie al basso livello delle emissioni registrato nel periodo di Kyoto. Il timore è la rimessa in discussione dell’impostazione europea di obiettivi legalmente vincolanti che rischierebbe di depotenziare l’accordo sul post-Kyoto.
L’impressione dunque è che si arrivi a Copenaghen in grande ritardo e con idee confuse. A meno di accelerazioni dell’ultima ora, si fisseranno dunque solo alcune linee guida per raggiungere un accordo definitivo nel 2010. In ogni caso, i risultati saranno lontani dalle indicazioni della comunità scientifica, secondo la quale i paesi industrializzati dovrebbero ridurre entro il 2020 le emissioni dei gas climalteranti tra il 25% e il 40% rispetto al 1990. Visti gli impegni già dichiarati da vari paesi, è probabile infatti che l’accordo prefigurerà un andamento delle temperature superiore di 2,5-3,0°C rispetto alla media dei secoli passati, ben al di sopra dunque della soglia di sicurezza.

4. Ma come raggiungere risultati così ambiziosi? Secondo un recente rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) che ha esplorato le possibilità di dimezzare le emissioni climalteranti al 2050 (scenario Blue), una percentuale molto elevata delle riduzioni – il 36% – sarebbe ottenibile grazie a un aumento dell’efficienza energetica negli usi finali. Seguirebbero le fonti rinnovabili, poi il sequestro dell’anidride carbonica e infine, con il 6%, il nucleare (grafico 3).
L’efficienza energetica non solo può portare a risultati più incisivi, ma in molti casi garantisce un vantaggio economico netto per la collettività. Le politiche del l’efficienza possono favorire la diffusione di tecnologie a minor consumo che, grazie alle economie di scala, consentono di ridurre i costi. I frigoriferi negli Usa consumano e costano tre volte meno rispetto ai tempi della prima crisi petrolifera. Ci sono però soluzioni fortemente innovative che consentono drastiche riduzioni dei consumi, ma che nel medio periodo risultano invece più costose e quindi aumentano il fatturato delle industrie che le producono. È il caso ad esempio delle automobili ibride o dell’illuminazione a Led. Una strategia efficace sul versante dell’efficienza energetica consente quindi di avvantaggiare i cittadini e di creare o rafforzare nuovi comparti industriali, oltre a ridurre le importazioni di energia e le emissioni climalteranti.

Per quanto riguarda le fonti rinnovabili, siamo di fronte a una rivoluzione non prevista dalla maggior parte degli osservatori fino a solo cinque anni fa. Oggi la consapevolezza del loro potenziale è ben presente nelle decisioni di leader come Angela Merkel, che si è battuta per l’obiettivo europeo del 20% di energia verde, o come Barack Obama, che nel giugno del 2009 dichiarava: «La nazione che sarà alla testa della creazione di una economia pulita sarà la nazione che guiderà l’economia globale del XXI secolo».
Alcuni paesi hanno imboccato con decisione questa strada, come la Germania che, andando anche oltre gli obiettivi indicati dall’Europa, è riuscita negli ultimi dieci anni a triplicare la quota di elettricità verde e a creare 280 mila posti di lavoro nell’effervescente comparto dell’energia verde.

Il trend annuo di crescita delle installazioni solari ed eoliche è a doppia cifra decimale.
Prendiamo l’energia del vento. Nel 2020 in Europa si potrebbe raggiungere una potenza installata di 230 GW, coprendo un quinto dell’obiettivo di riduzione del 30% dei gas climalteranti. Dall’altra parte dell’Atlantico, gli Usa sono diventati i leader mondiali installando nel 2008 una potenza eolica pari al 42% della potenza di tutte le centrali elettriche costruite lo scorso anno in America. Per non parlare della Cina, che si appresta a superare gli Usa e che recentemente ha innalzato l’obiettivo al 2020 da 20 GW a 160 GW.
Ma è dal solare che ci si aspetta sul lungo periodo il contributo più rilevante, essendo la disponibilità di questa risorsa di gran lunga superiore alla domanda energetica mondiale. Il tasso di crescita medio annuo del fotovoltaico nel periodo 2003-2008 è stato del 56%! Programmi come il Desertec, con investimenti dell’ordine di 400 miliardi di euro per centrali solari nel deserto del Sahara, che dovrebbero soddisfare il 15% della domanda elettrica europea entro il 2030, sono indicatori dell’enorme potenziale di questa fonte energetica.
Grandi aspettative sono concentrate poi sul sequestro della CO2, in particolare nel caso di impianti con forti emissioni come le centrali a carbone. Nel prossimo decennio si verificheranno i costi e gli impatti ambientali di questa soluzione e si valuterà con maggiore precisione il reale contributo che potrà derivare da questa opzione.
Negli ultimi anni si è infine riscontrato un forte interesse per l’energia atomica. Si è parlato anche di «rinascimento nucleare», dopo il periodo buio seguito a Cernobyl.
Le realizzazioni di nuovi reattori si sono però scontrate con l’imprevisto ostacolo di un vertiginoso aumento dei costi (grafico 4). Questa è la ragione che ha indotto Bush nel 2005 a prevedere forti incentivi pubblici per gli operatori disponibili a investire su questa tecnologia. La stessa francese Areva, il principale costruttore mondiale di reattori, scottata dall’esperienza della prima centrale costruita in Europa da molti anni, a Olkiluoto in Finlandia, che ha registrato gravi ritardi e costi aumentati del 50% rispetto alle previsioni, offre ora gli impianti a 5 mila euro/kW, il doppio di quanto stima l’Enel per lo stesso modello di centrale. Insomma, un solo reattore costerebbe quanto il ponte sullo Stretto di Messina.

5. Se il prossimo anno, come probabile, venisse siglato un accordo mondiale sul contenimento delle emissioni climalteranti, l’Europa alzerà il proprio obiettivo di riduzione al 2020, dall’attuale 20% rispetto ai livelli del 1990, fino al 30%. Cosa comporterebbe un innalzamento del target al 2020? Sarebbe una decisione improponibile, come sostiene la nostra Confindustria? In realtà, il taglio del 30%, oltre che necessario per tener conto delle indicazioni della comunità scientifica, sarà meno arduo da raggiungere di quando – due anni fa – l’obiettivo era stato annunciato.
L’attuale fase di recessione comporterà infatti una riduzione netta delle emissioni di CO2 al 2020. Secondo Fatih Birol, capo economista dell’Aie, esse potranno risultare inferiori del 5% rispetto alle previsioni fatte prima della crisi.

Va inoltre considerato il margine di flessibilità che deriva dalla percentuale di energia verde che potrà essere importata, valore che verrà deciso entro fine anno ma che comunque sarà vincolato dai limiti della capacità di trasmissione dell’elettricità tra i paesi limitrofi e l’Europa.
Dunque, l’eventuale passaggio alla riduzione del 30% sarà meno impegnativo del previsto, ma indubbiamente comporterà un’accelerazione delle politiche europee e nazionali sul versante dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, gli unici settori in grado nel prossimo decennio di offrire un contributo significativo al taglio delle emissioni.

6. Come arriva l’Italia a Copenaghen in termini di emissioni climalteranti? Le prime stime sui valori del 2008 indicano un incremento del 5% rispetto al 1990.
Questo dato, inferiore rispetto all’anno precedente, risente dei primi segni della recessione che ha inciso poi pesantemente nel 2009, tanto che per quest’anno ci si aspetta un livello di emissioni inferiore del 2-3% rispetto al 1990. Ricordiamo che per il conteggio di Kyoto si calcola la media delle emissioni nel periodo 2008-12 e che, non essendoci una particolare spinta alla riduzione delle emissioni da parte dell’attuale governo, è probabile che nel prossimo triennio le emissioni riprendano a salire.

Conclusione: nei cinque anni previsti dal Protocollo, l’Italia potrebbe trovarsi con un livello medio delle emissioni attorno al 2-4% sopra i livelli del 1990. Considerando quindi l’obiettivo assegnato al nostro paese del -6,5%, la distanza finale rispetto al target dovrebbe oscillare attorno al 10%. Se riusciremo a farci contabilizzare il carbonio assorbito dalle foreste il debito sarà leggermente inferiore. Un risultato migliore rispetto a quello che si poteva temere qualche anno fa, quando l’incremento rispetto al 1990 aveva superato l’11%, ma comunque ancora un valore molto lontano rispetto agli impegni assunti.
In realtà, i forti ritardi del nostro paese nel contenere le emissioni sono figli di una grave sottovalutazione da parte del mondo politico e industriale del cambiamento del contesto energetico-climatico che si andava già profilando. Fino al 2004 molti hanno sperato che la Russia, non firmando il trattato, ne impedisse l’avvio.
Lo scorso anno, nella negoziazione sui nuovi impegni al 2020, il governo ha fatto una penosa figura con la Commissione di Bruxelles cercando di ridurre i propri obiettivi e ha cercato ancora invano di ricontrattarli nelle scorse settimane. Tutto questo perché non si è compresa la gravità della situazione e non si è intuito che mettere l’asticella alta poteva – allora come adesso – stimolare il tessuto produttivo e renderlo competitivo nella nuova sfida internazionale.
Non stupisce quindi che la quota di elettricità verde sia rimasta stazionaria sul 18%, anche se negli ultimi 2-3 anni si sono finalmente registrati segnali di una decisa inversione del trend. E proprio da questo settore, insieme all’efficienza energetica, ci si aspetta il contributo più rilevante di riduzione delle emissioni.

Facendo riferimento al position paper presentato a Bruxelles dal governo italiano nel 2007, che riportava la valutazione sulle potenzialità delle rinnovabili al 2020, si possono fare alcune riflessioni. Sul versante elettrico i due contributi principali venivano identificati nell’eolico (con 12 GW) e nel solare (con 9,5 GW). In realtà entrambi questi valori sembrano sottodimensionati. L’Anev, l’associazione dei produttori di energia eolica, ritiene realizzabile un obiettivo alla fine del prossimo decennio di 16 GW con una produzione di 27 terawattora (TWh). E per quanto riguarda il fotovoltaico, alla fine del prossimo decennio si potrebbero raggiungere 15 GW che garantirebbero il soddisfacimento del 5% dei consumi elettrici 6. Per centrare gli obiettivi del 2020 occorrerà però rafforzare notevolmente le politiche sul versante termico che, oltretutto, può essere incentivato con costi inferiori.

Decisivi per il raggiungimento della nuova potenza delle rinnovabili sono poi il rafforzamento delle reti, senza il quale l’obiettivo al 2020 naufragherebbe miseramente, e il coinvolgimento più attivo delle Regioni che dovrebbe avvenire con il decreto sul burden sharing, grazie al quale saranno ripartiti gli obiettivi del 2020. La parte più rilevante della nuova produzione di energia «verde» verrà dalle regioni del Sud. Si apre quindi una stagione che potrà rappresentare o una straordinaria opportunità per queste aree o, viceversa, un nuovo assalto da parte di soggetti esterni, mentre manca un effettivo controllo del territorio da parte delle istituzioni.
Per finire un accenno alla green economy. Siamo all’inizio di una gigantesca rivoluzione nel campo dell’energia. L’Italia sta recuperando rapidamente posizioni,
come dimostra il quarto posto nel mondo per potenza fotovoltaica e il sesto per quella eolica installata nel 2008. Anche sul fronte delle industrie produttrici di tecnologia pulita si sta muovendo qualcosa. Resta però troppo indietro la ricerca, priva di una regia unitaria che consenta di tenere il passo in un comparto dove la sfida si gioca sull’innovazione.
Tenendo conto poi degli obiettivi legalmente vincolanti del 2020 e del possibile loro innalzamento in presenza di un accordo su scala mondiale (altro che rivedere le quote di CO2 verso il basso…), occorrerebbe un vero shock politico. Andrebbe infatti avviata una strategia incisiva che coinvolgesse tutti i ministeri, come ha fatto la Gran Bretagna con il piano approvato lo scorso 20 luglio, che prevede una riduzione delle emissioni climalteranti del 34% rispetto al 1990.

7. È assai probabile che a Copenaghen non si giungerà a un accordo conclusivo, ma che verranno approvati alcuni punti fermi. In particolare, un obiettivo di riduzione globale al 2050 (-50%), un valore aggregato di riduzione al 2020 per i paesi industrializzati (se il Senato Usa approverà in tempo la Climate Bill, potranno essere definiti obiettivi nazionali), l’entità e le modalità di trasferimento delle risorse economiche ai paesi in via di sviluppo, l’anno entro il quale i paesi in via di sviluppo dovranno raggiungere il picco delle emissioni e infine la data precisa per siglare l’accordo conclusivo. Secondo questo scenario, caldeggiato dai negoziatori Usa, si approverebbe anche l’architettura di un nuovo accordo multilaterale che assicuri un contributo equo da parte di tutti i principali attori, con obiettivi vincolanti per il mondo industrializzato e con impegni settoriali verificabili (rinnovabili, efficienza energetica…) per gli altri paesi. Si arriverebbe, secondo questa impostazione, a un nuovo accordo, diverso rispetto al Protocollo di Kyoto. Svezia e Norvegia si sono già fatte avanti per ospitare nella prima parte del 2010 la sessione nella quale si potrebbe giungere a un accordo legalmente vincolante. Nei prossimi mesi sarà dunque cruciale il ruolo dell’Europa, come lo è stato dopo lo stop di Bush nel 2001, quando riuscì pazientemente a ricucire i rapporti tra i firmatari del Protocollo di Kyoto fino ad arrivare alla sua entrata in vigore nel 2005.
L’altro importante attore nei prossimi mesi sarà l’opinione pubblica mondiale.
L’attivismo internazionale che non riuscì a fermare la guerra in Iraq sarà in grado di imporre, attraverso una straordinaria mobilitazione, un accordo che eviti un esito catastrofico del cambiamento del clima?
Certo, alla fine si valuterà la validità del compromesso raggiunto. Ma prevale la sensazione che si riesca ad arrivare a decisioni storiche sulla limitazione degli impatti della presenza antropica sul pianeta.

Gianni Silvestrini

7 dicembre 2009

 

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