Verso Copenhagen, Kyoto Club: serve impegno quantitativo

  • 9 Novembre 2009

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La posizione sulla Cop 15 di Copenhagen del Kyoto Club discussa dal direttore scientifico Gianni Silvestrini in un'intervista all'Agenzia di stampa Dire. L'obiettivo è un impegno quantitativo per i paesi industrializzati al 2020, e di tutti gli altri al 2050.

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Dal 7 all’11 dicembre Copenhagen ospiterà il vertice mondiale, la Cop 15 (Conferenza delle Parti contraenti il protocollo di Kyoto), che deciderà il futuro del patto internazionale per la difesa del clima. L’Agenzia di stampa Dire ha iniziato un “giro di opinioni” con le principali realtà – dalle associazioni alle aziende – coinvolte dalle misure per rispondere alla crisi climatica. Ogni settimana 10 domande rivolte ai “protagonisti del clima”. Stavolta è il turno del Kyoto Club. Risponde Gianni Silvestrini, direttore scientifico dell’associazione.

La Cop 15 di Copenhagen sarà cruciale per il futuro delle politiche salvaclima: con quale spirito vi avviate all’appuntamento del 7 dicembre?
Con grandi speranze, considerando il fatto che le novità costituite dalla presidenza Obama, dai nuovi governi in Australia e Giappone, dalle aperture di Cina e India e la consolidata leadership europea rappresentano la migliore combinazione possibile. Detto questo, c’è anche una notevole cautela in relazione alla discussione in atto presso il Senato Usa della “Climate bill” dagli esiti incerti e all’andamento delle trattative che sembrerebbero preludere ad un superamento dell’approccio di Kyoto.

Quali sono i risultati irrinunciabili della Cop 15, quelli insomma senza i quali si potrà parlare di un fallimento?
Un impegno quantitativo dei paesi industrializzati al 2020 e di tutti i paesi al 2050, una data entro la quale i paesi in via di sviluppo (Pvs) dovrebbero iniziare a ridurre le proprie emissioni, obiettivi settoriali misurabili (efficienza energetica, rinnovabili …) per i Pvs, quantificazione delle risorse economiche da trasferire ai Pvs.

Ad oggi, i paesi in via di sviluppo non sembrano disposti ad accettare impegni sul taglio delle emissioni, che fermerebbero la loro crescita, mentre quelli industrializzati non si impegnerebbero ad un “target zero” che consentirebbe agli altri di inquinare: qual è la possibile via d’uscita?
Ci sono diversi segnali di apertura da parte di paesi importanti come Cina, India, Messico disponibili a discutere di un contenimento delle emissioni climalteranti. Del resto, già ora sono molti i programmi in quei paesi che vanno in questa direzione, ad iniziare da quelli sulle fonti rinnovabili. Rispetto ai paesi industrializzati, gli obiettivi di riduzione del 25-30% proposti da Giappone ed Europa sembrano coerenti con la portata della sfida. La partita alla fine si giocherà sull’entità delle risorse economiche che i paesi ricchi saranno disponibili a mettere sul piatto.

Cina e Usa saranno i protagonisti dell’accordo, come giudicate le loro posizioni attuali e quale potrebbe essere una via d’uscita che metta insieme crescita e sostenibilità climatica?
La Cina è sempre più preoccupata per le conseguenze negative dei cambiamenti climatici sulla crescita economica e contemporaneamente ha compreso che un accordo sul clima comporterà la creazione di una enorme nuova area di business. Si è già lanciata nella produzione di tecnologie “green” come i moduli fotovoltatici, dove rapidamente ha assunto la leadership mondiale, le auto elettriche, gli impianti eolici. Tutto ciò fa pensare che alla Cina interessa il raggiungimento di un forte accordo per il post-Kyoto, che punterà ad ottenere risorse economiche adeguate per lo stoccaggio dell’anidride carbonica e che accetterà obbiettivi settoriali sull’efficienza energetica e sulle rinnovabili.
Per quanto riguarda gli Usa, si nota una forte differenza tra le posizioni dell’amministrazione Obama e i rappresentanti eletti a Washington. Sembrerebbe emergere una impostazione negoziale che potrebbe portare ad un approccio diverso rispetto al protocollo di Kyoto che non prevede per i paesi in via di sviluppo obiettivi complessivi, ma solo settoriali.

L’Unione Europea è la “prima della classe”, alcuni Stati, come la gran Bretagna, portano avanti politiche coraggiose di riduzione delle emissioni: sono utili questi atti volontaristici in un assetto globale?
La critica fatta dai negazionisti e dai loro amici sul fatto che il contributo di riduzione delle emissioni dell’Europa è marginale e quindi rappresenterebbe un inutile spreco di risorse è priva di ogni fondamento. E’ grazie a questo ruolo di apripista, infatti, che si sono raggiunti gli accordi internazionali. Inoltre, grazie all’impegno di alcuni paesi sulle fonti rinnovabili e sull’efficienza energetica ha consentito all’Europa di avere una leadership tecnologica.
Come indicazione del ruolo di guida nella introduzione di nuove politiche va segnalata la legge inglese che prevede che dal 2016 tutti i nuovi edifici residenziali inglesi siano “carbon neutral”, cioè a zero emissioni, una rivoluzione nel mondo dell’edilizia.

La Cina e le economie emergenti ricordano che ad inquinare sono stati – e sono – i paesi industrializzati e i loro cittadini: come si fa a “decarbonizzare” i paesi in crescita? Il trasferimento di tecnologie pulite è sufficiente? I “meccanismi flessibili” del protocollo di Kyoto funzionano?
Per ridurre il tasso di crescita delle emissioni cinesi di anidride carbonica(dell’8-10% all’anno) occorrerà avviare un trasferimento di risorse molto superiore rispetto al passato. Pensiamo, ad esempio, ai costi del sequestro dell’anidride carbonica per le centrali a carbone.
Anche i meccanismi flessibili andranno rivisti affinché possano essere utilizzati in un contesto molto più ampio nei paesi in via di sviluppo.

Non solo industrie e generazione termoelettrica: la deforestazione pesa per il 20% circa nelle emissioni di gas serra, e percentuali ben maggiori derivano dal settore residenziale e dai trasporti. Come agire per salvare le foreste e, ancor più importante, intervenire sui comportamenti dei singoli? la tutela del clima parte dai cittadini, come convincerli?
La deforestazione non è stata considerata nell’ambito del Protocollo di Kyoto, mentre ci sono forti pressioni affinché venga inclusa nelle trattative di Copenaghen.
Si sa, ad esempio che il Brasile presenterà un programma che prevede una forte riduzione della distruzione delle foreste tropicali. Per quanto riguarda il settore civile e quello dei trasporti, è evidente che una parte dei risultati che si potranno ottenere saranno legati al cambiamento dei comportamenti dei cittadini. Per ottenere questo potranno servire strumenti diversi. Ad esempio, la definizione di segnali di prezzo dell’energia mediante l’adozione di una carbon tax. O il miglioramento dell’informazione attraverso la certificazione energetica o quella del contenuto di carbonio (carbon footprint) di prodotti come elettrodomestici, abitazioni, automobili. O ancora, le azioni per favorire le modalità di trasporto meno energivore, come i trasporti pubblici, le biciclette. Alla fine, considerando la radicalità degli obiettivi climatici, sarà necessario anche un ripensamento profondo degli stili di vita e dei modelli di sviluppo.

Mentre si discute sulla riduzione dei gas serra “da emettere”, quelli già rilasciati in atmosfera stanno avendo conseguenze gravi sulle popolazioni più povere ed esposte, creando veri e propri profughi climatici. A che punto sono le cosiddette “strategie di adattamento”? Si sta già rispondendo efficacemente alle prime conseguenze dei mutamenti?
Siamo solo all’inizio della costruzione delle difese necessarie per proteggerci dalle conseguenze dei cambiamenti climatici. I paesi più poveri avranno più difficoltà ad attrezzarsi e già ora patiscono i danni peggiori. Basta vedere le differenti conseguenze del passaggio di uno stesso uragano nei paesi dell’America Centrale o negli Usa. Ormai si è capito che occorre accompagnare le misure di contenimento delle emissioni con quelle di adattamento.
Pensiamo, ad esempio, alle conseguenze dell’innalzamento del livello degli oceani con il rischio di vedere invase dalle acque superfici di migliaia di chilometri quadrati.

C’è chi diffonde lo scetticismo parlando di “truffa di Kyoto”, la comunità scientifica è concorde nell’indicare la gravità della situazione, ma la politica e l’opinione pubblica non sembrano rispondere all’allarme. C’è un problema di comunicazione o di credibilità?
Una recente ricerca Usa ha messo in evidenza che mentre tra il grande pubblico solo una quota del 58% è convinta della responsabilità dell’uomo nei cambiamenti climatici, la percentuale sale al 97,4% tra i climatologi coinvolti nelle ricerche sul global warming. Purtroppo questa non è la percezione dell’opinione pubblica perchè spesso i media fanno passare l’idea di un mondo scientifico diviso. Sulle Tv per animare le trasmissioni si organizzano confronti con gli “scettici”, quasi mai esperti del settore. Eppure tutte le più grandi Accademie scientifiche del mondo, dagli Usa alla Russia, dalla Cina all’Italia, hanno sottoscritto un documento inequivocabile sul turbamento indotto dall’uomo e sulla necessità di un rapido intervento.

L’Italia: cosa ha fatto sinora e come si presenta a Copenhagen? Come giudicate la posizione del governo? E come si stanno muovendo le aziende? Le pesantissime multe previste dal protocollo di Kyoto arriveranno?
Il nostro paese ha gravemente sottovalutato la gravità del fenomeno. Basti ricordare la mozione negazionista approvata dal Parlamento pochi giorni prima del G8 dell’Aquila dove, su richiesta di Obama, si teneva una giornata per approfondire le risposte alla sfida climatica.
Questa mancanza di visione si è riflessa in un ritardo delle nostre industrie ad attrezzarsi per ridurre le proprie emissioni e a cogliere le opportunità legate alla nascita di nuovi comparti produttivi nel campo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica. Solo negli ultimi due, tre anni, grazie anche alle misure varate dal precedente governo, si stanno ottenendo dei risultati interessanti, come testimonia il nostro quarto posto nel mondo nelle installazioni fotovoltaiche del 2008.
Per quanto riguarda le sanzioni, ci saranno certamente per le industrie che non rispetteranno i limiti posti dalla direttiva sull’Emissions Trading (100 €/tonnellata CO2). Ma guardando al 2020 dobbiamo capire come attrezzarci per raggiungere gli obiettivi europei legalmente vincolanti di energia verde, che comportano la triplicazione della produzione delle fonti rinnovabili. Insomma, occorre un deciso cambio di marcia che può venire solo se il nostro mondo politico e industriale comprende l’entità della rivoluzione energetica e industriale in atto.

Intervista a cura dell’Agenzia di Stampa Dire (7 novembre 2009)

9 novembre 2009

 

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