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  • 19 Ottobre 2009

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Nella conferenza di Copenhagen, il prossimo dicembre, è in gioco il futuro del Pianeta. Serve un nuovo accordo sulle emissioni. Ma anche l'impegno di tutti gli attori per costruire un mondo più giusto. Malgrado l'Italia. Un articolo di Francesco Ferrante pubblicato su La Nuova Ecologia.

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Era il 1990 quando Legambiente lanciò la petizione: “Fermiamo la febbre del Pianeta”. Raccogliemmo centinaia di migliaia di firme, mobilitando l’associazione in uno sforzo straordinario. Era un impegno condiviso con l’ambientalismo di tutto il mondo ma condotto “contro” le opinioni dominanti dell’economia, della politica, dei media. Già due anni dopo però, nella prima conferenza Onu sullo Sviluppo Sostenibile di Rio de Janeiro, e con la sottoscrizione in quell’occasione delle convenzioni su clima e biodiversità, iniziarono a farsi strada nel discorso pubblico internazionale nuove priorità, e la necessità di trovare sedi multilaterali dove governare fenomeni globali come quello legato ai cambiamenti climatici. Da lì nasce il protocollo di Kyoto (1997) e in quegli anni le questioni ambientali avrebbero potuto fare da apripista a un modo più saggio, equo e giusto di governare il mondo. Una modalità che non si è mai affermata e a cui l’11 settembre e la politica unilaterale di Bush hanno fatto subire in questo primo scorcio di millennio tragici passi indietro.

Yes, we can
Oggi, quasi vent’anni dopo, ci troviamo in un momento che può essere decisivo per il futuro del Pianeta e di come gli umani decideranno di viverci e governarlo. Non sembri eccessivo: è questo che è in gioco a Copenhagen a dicembre. Non solo la ricerca di un accordo sulle limitazioni delle emissioni ma la scommessa, “obamiana”, di trovare e rilanciare su scala globale un modo pacifico di risolvere i conflitti, di distribuire le ricchezze per assicurare benessere a fasce sempre più ampie della popolazione mondiale. Insomma, un nuovo inizio per una globalizzazione “buona”, in opposizione a quella ultraliberista che ha dominato lo scenario politico-economico in questi anni.

Sono nuovamente le questioni ambientali, la lotta alla febbre del pianeta che possono giocare un ruolo decisivo in questa sfida epocale. E allora sono questi gli occhiali che dovremmo usare per giudicare i risultati di Copenhagen. Non solo i due tradizionali metri degli ambientalisti: il numero finale di riduzione percentuale di gas serra su cui si troverà l’accordo e la cogenza degli impegni che in quella sede i vari attori (Usa, Ue, paesi emergenti e in via di sviluppo) si assumeranno. Ma sarà ancora più importante l’approccio globale: se l’Unione Europea manterrà il ruolo di spinta che ha avuto in questi anni, se Cina, India e Brasile otterranno i trasferimenti di tecnologia necessari per ottenere l’aumento di benessere delle proprie popolazioni senza seguire le strade, non più sostenibili, che abbiamo seguito noi, se gli Usa manterranno la promessa di essere in prima linea nel dare l’esempio di un nuovo stile di vita. Dovremo capire se a Copenhagen, oltre a disegnare un futuro in cui l’umanità uscirà dall’era del fossile per cavalcare le nuove frontiere delle rinnovabili, si sarà messa una prima pietra nella costruzione di un mondo più “giusto”.

Governo senza limiti
Viene un po’ di malinconia se confrontiamo questa grande sfida cui è chiamato il mondo con chi rappresenterà noi italiani in quella sede. Questo nostro governo, e la maggioranza che lo sostiene, rimasto solo, come quei giapponesi che continuavano a combattere anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, a negare i cambiamenti climatici (vedi la demente mozione approvata dal nostro Senato proprio alla vigilia del G8 Ambiente di Siracusa), a combattere le energie rinnovabili (vedi l’altrettanto demente mozione approvata sempre al Senato prima dell’estate) e a provare a rilanciare il vecchio, insicuro e costoso nucleare. Il Berlusconi del 2001 aveva puntato tutto sul fatto che Kyoto non sarebbe entrato in vigore, e ha perso. Il Berlusconi del 2008 ha giocato le sue carte contro la Ue e il suo pacchetto clima, e ha perso di nuovo.

Ma non si rassegnano: durante quest’estate hanno “scoperto” che non centrare gli obiettivi di Kyoto ci costerà dai 550 agli 800 milioni annui e hanno scaricato ogni responsabilità sul governo precedente: hanno detto, i nostri ineffabili governanti e il Sole 24 Ore, che la “colpa” era nell’aver accettato dall’Ue limiti troppo restrittivi. La verità è un’altra: quei limiti erano sin troppo generosi se paragonati agli sforzi richiesti ad altri paesi, ma inaccettabili per il nostro sistema di produzione termoelettrica che voleva in maniera miope continuare a puntare sul carbone. Il problema è tutto qui: non c’entra niente il sistema manifatturiero da proteggere (che sta dentro gli obiettivi), il nostro deficit è tutto nel termoelettrico e non poteva essere altrimenti vista la folle politica “carbonifera”.

Cambiare rotta
Le dodici centrali a carbone attive in Italia producono il 14% del totale dell’energia elettrica, ma emettono il 30% dell’anidride carbonica dovuta alla produzione complessiva di elettricità. Sono queste le prime responsabili dello sforamento dei limiti europei: nel 2008 le centrali a carbone avevano già sforato di 7,5 milioni di tonnellate di CO2 i limiti. Allora che si fa? Si converte a carbone la centrale di Civitavecchia, incrementando di 10 milioni di tonnellate annue le emissioni e non contenti di ciò, nel corso del 2008, sono state autorizzate conversioni a carbone a Fiumesanto (Sassari), Vado Ligure (Savona) e quella della megacentrale di Porto Tolle, che se realizzate emetterebbero in atmosfera ulteriori 38,8 milioni di tonnellate di CO2.

E il vero capolavoro, se è consentita l’ironia, è che vorrebbero scaricare i costi dello sforamento sulle tasche dei cittadini, non facendo pagare alcun prezzo a chi – le aziende elettriche – sul carbone macina profitti. Contraddicendo così in maniera clamorosa il senso stesso delle norme internazionali che cercano appunto di correggere il mercato tenendo conto dei “costi ambientali”. Bisogna che questo paese cambi rotta immediatamente, noi non ci stancheremo di reclamarlo e di batterci perché anche l’Italia e gli italiani partecipino alla “rivoluzione” che ci attende nei prossimi anni e che speriamo a Copenhagen muova passi concreti.

di Francesco Ferrante *
segreteria nazionale Legambiente

per gentile concessione della rivista La Nuova Ecologia (ottobre 2009)



19 ottobre 2009

 

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