Cercando di focalizzare l’attenzione dell’opinione internazionale sul cammino verso un’economia più verde del paese, il presidente Hu Jintao a New York si è impegnato a ridurre le emissioni per unità di prodotto interno lordo (cioè la cosiddetta intensità energetica) “in maniera significativa al 2020 rispetto ai livelli del 2005” (la Cina nel piano cinquennale tuttora in vigore sta già perseguendo l’obiettivo di ridurre l’intensità energetica del 20% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2010).
Una pressione a cui gli Usa a New York non hanno risposto con mosse decise. Le parole di Barack Obama, che ha tra l’altro ammesso davanti ai 100 leader mondiali riuniti la maggiore responsabilità dei paesi ricchi per il global warming, sono state efficaci come sempre. Ma è mancato quello che in molti aspettavano: il suo impegno a far sì che gli Stati Uniti si diano per legge dei limiti alle emissioni prima di sedersi al tavolo di Copenhagen. Pare difficile infatti che il Climate Bill, la legge Usa per ridurre i gas serra, passi l’esame del Senato entro dicembre (gli stessi senatori democratici stanno spingendo per discuterla nel 2010).
Insomma, a New York – malgrado i passi avanti di Cina e India e l’annuncio in sede Onu dei nuovi impegni giapponesi (taglio della CO2 al 2020 del 25% rispetto ai livelli del 1990) – non ci sono stati i passi avanti che servirebbero sulla strada di un buon accordo. Comprensibile il disappunto del segretario Onu Ban Ki Moon per la lentezza dei negoziati: “I ghiacciai del pianeta si stanno sciogliendo più velocemente dei progressi che l’umanità sta facendo per proteggerli e proteggere se stessa”, ha dichiarato a New York. Il lavoro da fare quindi è ancora molto. Ora i prossimi appuntamenti verso il summit di Copenhagen (dal 7 al 18 dicembre) sarannoi il vertice dei G20 di domani a Pittsburg – in cui la questione clima avrà uno spazio rilevante – e i negoziati Onu che riprenderanno lunedì a Bangkok.
Coinvolgere tutte le nazioni del mondo nella lotta al global warming sarà fondamentale. Non solo per il suo buon esito, ma anche per la sua sostenibilità economica. A ribadirlo, in un intervento sul Guardian in occasione del vertice di New York, l’economista Nicholas Stern insieme a Tony Blair, un editoriale nel quale l’autore del famoso rapporto sull’economia del cambiamento climatico e l’ex-primo ministro britannico illustrano le conclusioni dell’ultimo report su costi della riduzione delle emissioni (vedi allegato in basso), pubblicato lunedì da The Climate Bill (think-tank con il quale Blair collabora). Un documento la cui conclusione sintetizzata al massimo è questa: combattere il riscaldamento globale conviene economicamente, sia sul breve che sul lungo termine, e diventa tanto più conveniente quante più nazioni parteciperanno alla lotta.
Per ottenere un calo delle emissioni del 30% al 2020, ad esempio, se le misure di riduzione fossero adottate solo in Europa, sarebbe necessario un prezzo della CO2 di 65 dollari a tonnellata; prezzo che si ridurrebbe a 28 $ se anche gli Usa partecipassero e a soli 4 $/ton se si riuscissero a coinvolgere tutte le nazioni. Allo stesso modo il Pil mondiale al 2020 non calerebbe, ma anzi crescerebbe anche se in maniera trascurabile (inferiore al margine d’errore nella previsione) se l’Europa agisse da sola. Ma le misure anti-emissioni messe in campo con un accordo globale lo farebbero aumentare ben dello 0,8% (in confronto allo scenario business as usual) e creerebbero 10 milioni di posti di lavoro.
Per usare le parole di Stern e Blair, ha senso agire subito non solo perché ” i costi di non fare nulla – economici, sociali e politici – farebbero impallidire al confronto l’attuale crisi economica “, ma anche per le conseguenze economiche sul breve termine: “Anche ignorando l’impatto del cambiamento climatico stesso, investimenti collaborativi per tagliare le emissioni farebbero bene all’economia”.
Il report di The Climate Group (pdf)
23 settembre 2009