La Cina, che ha recentemente scalzato gli Usa dal primo posto come emettitore mondiale, ha il sistema economico che sta crescendo più rapidamente sul pianeta. Ed è un’economia che si basa sull’energia da carbone, fonte da cui viene più dell’80% del fabbisogno elettrico del paese. Nel 2008 le centrali a carbone cinesi hanno emesso 366 milioni di tonnellate di CO2 in più rispetto all’anno precedente. Chiaro dunque che si guardi alla potenza asiatica come al luogo in cui la cattura della CO2, quando sarà applicabile su larga scala, potrà fare di più.
Come avverte anche un recente studio del MIT (pdf), dotare della tecnologia CCS le centrali nuove e quelle già esistenti, sia in Cina che negli Usa, sarebbe fondamentale per la tutela del clima, e non a caso la CCS è al centro di programmi d cooperazione tecnologica internazionale con il paese, come quello lanciato da poco con gli Stati Uuni (articolo Qualenergia.it “Clima. Usa e Cina alleati, almeno nella ricerca”).
Al di là dei progetti pilota, si spiega, la cattura su larga scala pone una serie di problemi all’economia cinese: prima di tutto il fatto che le centrali dotate di questa tecnologia hanno bisogno di circa il 20% di combustibile in più per produrre la stessa quantità di elettricità. Per la filiera del carbone nazionale, che già stenta a soddisfare l’appetito dell’economia del paese, aumentare di questa percentuale la produzione costerebbe almeno 15 miliardi di dollari e farebbe salire ulteriormente il costo del minerale.
Mettere in campo la CCS in Cina comporterebbe, secondo lo studio, una spesa complessiva che va dai 300 ai 400 miliardi di dollari in 30 anni, e secondo l’International Energy Agency dai 450 ai 600 miliardi di dollari. I costi attuali della cattura della CO2, infatti, sono ancora incerti: le stime vanno dai 90 ai 180 dollari a tonnellata di CO2 sequestrata (documento su Qualenergia.it, “Il prezzo della cattura”): troppo comunque anche per paesi, come quelli europei, in cui le emissioni si pagano e un prezzo improponibile poi per la Cina che non ha nessuna intenzione di mettere in atto meccanismi di mercato per contenere la CO2. I produttori di energia cinesi, sottolinea il report, “possono a stento sostenere il costo del carbone [durante i picchi di aumento del prezzo] ed è impensabile che possano far fronte ai costi della CCS”
Insomma, la “cattura” è troppo cara per la Cina. Il Governo di Pechino, d’altra parte, lo aveva già fatto presente: “La carbon capture and storage non è una priorità per la Cina – dichiarava il direttore dell’unità per i cambiamenti climatici della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme, Su Wei, lo scorso 4 agosto in un’intervista a Bloomberg – e il problema sono i costi: se spendessimo gli stessi soldi per efficienza energetica e rinnovabili otterremmo benefici molto più grandi per il clima”.
L’unica speranza affinché la CCS un giorno tagli seriamente le emissioni del carbone cinese è pertanto che il conto lo paghino i paesi ricchi, attraverso il fondo per la cooperazione internazionale sul clima. Ma si tratta di una cifra non indifferente: secondo lo studio, 25-30 miliardi di dollari all’anno, che andrebbero a una tecnologia ancora incerta a scapito di altri investimenti più efficaci. Anche di questo si parlerà a dicembre a Copenhagen.
Giulio Meneghello
9 settembre 2009