In marcia verso Copenhagen

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A cento giorni dalla Conferenza mondiale di Copenhagen, dove si deciderà il post Kyoto, i segnali del clima e quelli della politica internazionale potrebbero rafforzare un accordo epocale, ma le eco-diplomazie dei paesi industrializzati e dei paesi emergenti devono ancora avvicinarsi. L'editoriale di Gianni Silvestrini.

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Mancano poco meno di cento giorni dall’inizio della conferenza di Copenhagen e si accelerano i preparativi di questa decisiva scadenza.
Cos’è cambiato rispetto a quando, nel dicembre del 1997, si firmò il Protocollo di Kyoto? Intanto è decisamente aumentata la consapevolezza della gravità del riscaldamento globale. I dieci anni più caldi da quando si misurano le temperature sono tutti compresi nel periodo 1997-2008.
Lo scorso mese di luglio si è registrato il più alto valore della temperatura media degli oceani degli ultimi 120 anni, 17 °C. La perdita di ghiaccio in Groenlandia è raddoppiata dal 1996 al 2005, arrivando a 100 miliardi di tonnellate all’anno. Per restare più vicini a noi, in Italia quest’estate è stata la quarta più calda nella storia della meteorologia.

E in termini politici? L’ultimo anno ha notevolmente rafforzato la possibilità di raggiungere un accordo. Le elezioni in Australia e Usa hanno portato al governo leader impegnati sul fronte climatico. E la votazione anticipata in Giappone dello scorso 30 agosto ha determinato un ribaltamento politico che accentuerà il ruolo del Paese asiatico. Il precedente Governo, infatti, ipotizzava un obbiettivo di riduzione delle emissioni dell’8% rispetto al 1990, mentre il programma del vincente Partito Democratico prevede una riduzione di oltre il 25% rispetto ai livelli del 1990. L’Europa, come si sa, ha approvato un target di riduzione del 20% rispetto al 1990 con la possibilità di un innalzamento fino al 30% in caso di accordo globale a Copenhagen.
Obama si sta muovendo su due livelli. Sul fronte interno è riuscito a far passare al Congresso una legge, il Clean Energy and Security Act, che prevede una riduzione delle emissioni climalteranti del 17% rispetto al 2005, adesso deve convincere il Senato ad approvare il piano in tempo per l’appuntamento di Copenhagen. Contemporaneamente sta attivando una diplomazia climatica nei confronti del Brasile, India, Cina per preparare il terreno. Significativamente Obama sarà in Cina a novembre, un mese prima di Copenhagen.

E veniamo al colosso asiatico. Malgrado ufficialmente abbia sempre dichiarato l’indisponibilità ad accettare limiti alle sue emissioni, negli ultimi mesi la posizione cinese si è ammorbidita. Da un lato c’è la percezioni che i cambiamenti climatici causeranno gravi perdite all’economia del Paese, dall’altro le sue industrie stanno preparandosi ad avere un ruolo di primo piano nella green economy, come già sta avvenendo nei comparti del solare fotovoltaico e dell’eolico.
Alla fine, sul successo dell’accordo giocherà un ruolo decisivo quanto i Paesi industrializzati metteranno sul piatto per facilitare il trasferimento di tecnologie pulite. Si parla di cifre dell’ordine di 100 miliardi di dollari l’anno, cui l’Europa dovrebbe contribuire per un 20-30%.

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