Il prezzo della cattura

  • 23 Luglio 2009

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Un nuovo studio quantifica i costi futuri per la cattura e il sequestro della CO2: la prima generazione, che non sarà operativa prima del 2030, costerà molto, fino a 180 $ a tonnellata di CO2 evitata, facendo raddoppiare il costo dell'elettrcità. In futuro però i costi dovrebbero ridursi e la CCS diventare competitiva con le altre fonti. Che però, a differenza della cattura della CO2, sono già disponibili ora e hanno molte meno incognite.

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Il mondo intero, ancora pesantemente dipendente dai combustibili fossili, conta sulla cattura e il sequestro della CO2, ma quando possa essere messa in campo su vasta scala questa opzione resta ancora un’incognita. Come resta ampiamente incerto il lato economico di questa tecnologia, necessario per sapere quanto e quando la CCS verrà applicata . Proprio di quest’ultimo questo aspetto si occupa uno studio appena pubblicato dal Belfer Center di Harvard. Le conclusioni sono assieme buone e cattive: la CCS può essere economicamente conveniente, ma non lo sarà nei prossimi anni né per la prima generazione di impianti.

Il report “The Realistic Costs of Carbon Capture” (vedi allegato) esamina i costi per catturare e sequestrare il gas serra dalle centrali a carbone: la prima generazione di centrali capaci di catturare il 90% delle proprie emissioni, secondo lo studio, avrà costi operativi dai 120 ai 180 dollari a tonnellata di CO2. L’elettricità prodotta in una centrale dotata di tecnologia CCS, dunque, arriverebbe a costare più del doppio del prezzo corrente: dagli 8 ai 12 centesimi in più a chilowattora, contro un prezzo corrente medio che negli Usa è di 9 cent$.

Meglio andranno le cose quando la tecnologia sarà matura e si instaureranno economie di scala: allora i costi si ridurranno a 35-70$ per tonnellata di CO2 evitata e il sovrapprezzo sull’elettricità sarà dai 3 ai 5 cent/kWh. Costi ai quali le centrali dotate di CCS iniziano ad essere competitive rispetto a quelle che ne sono prive e che dovranno pagare un prezzo sempre più caro per le emissioni. Ma questi risultati non si raggiungeranno domani: per sapere “quando la tecnologia sarà matura” lo studio intende infatti il momento in cui nel mondo ci saranno centrali dotate di CCS per 50-100 gigawatt, mentre al momento su tutto il pianeta non vi sono che 4 progetti pilota ognuno con una potenza nell’ordine di decine di megawatt.

Discriminante importante dal punto di vista economico è la modalità di stoccaggio della CO2 sequestrata: tutto diventa più conveniente se viene iniettata nei giacimenti di petrolio in esaurimento per estrarre il greggio che rimane, che però sono piuttosto limitati. Con il barile sopra i 75 dollari in questo modo si rientrerebbe dei costi della cattura. Interessante poi anche il confronto economico con gli altri sistemi low-carbon di produrre energia: il megawattora prodotto da una centrale a carbone con CCS avrebbe costi paragonabili a quelli del nucleare e dell’eolico offshore,  solare a concentrazione e  fotovoltaico domestico sarebbero invece più cari, mentre l’eolico a terra è la più economica tra le fonti a basse emissioni.

Dunque la cattura della CO2 si può fare oggi a costi alti, ma che si ridurranno nel tempo, una volta rotto il ghiaccio con la prima dispendiosa generazione di impianti. E in un mondo ancora ampiamente dipendente dal carbone e dalle altre fonti fossili è logico che si punti molto su questa tecnologia: la CCS avrà un posto di riguardo nella neonata collaborazione tecnologica tra Usa e Cina e molti altri governi stanno investendo risorse ingenti in questo campo: tra i più attivi quelli di Norvegia, Canada, Australia, Regno Unito e Usa, mentre l’Unione Europea ha riservato 300 milioni di euro dai proventi della prossima fase del mercato delle emissioni per realizzare 12 progetti pilota.

Nel guardare il confronto con gli altri modi di produrre energia occorre però ricordare che si parla di una tecnologia in una fase poco più che embrionale. Ad esempio, se i costi sono paragonabili a quelli dell’eolico offshore, va considerato che l’eolico esiste già qui ed ora, mentre la prima generazione di centrali con CCS, secondo lo studio, non sarà operativa prima del 2030 (secondo altri come l’IPCC nel 2008, non prima del 2050).

Molte poi le incognite e i punti deboli di questa soluzione: oltre ai consumi di combustibili e di acqua che la tecnologia comporta (a parità di energia prodotta una centrale con CCS usa rispettivamente il 40% in più di combustibile e il 90% in più di acqua), non si sa ancora se ci siano abbastanza cavità adatte a stoccare la CO2 in maniera sicura, né si possono escludere fuoriuscite. Se avvenissero perdite anche solo dell’1% – sostiene Greenpeace in un report di cui abbiamo parlato su Qualenergia.it – gli effetti positivi sul clima sarebbero vanificati.

Non si può non guardare anche alla cattura della CO2 per ridurre le emissioni ed è una buona notizia il fatto che quando sarà una pratica diffusa possa diventare economicamente conveniente, ma – come avvertono molti – bisogna ricordarsi che la CCS è ancora una tecnologia lontana dalla maturità, mentre le emissioni vanno ridotte qui ed ora: sarebbe suicida contare su questa “bacchetta magica”, disponibile forse in futuro, per ritardare l’abbandono progressivo dei combustibili fossili o peggio, come si sta facendo, per giustificare la costruzione di nuove centrali a carbone.

GM

23 luglio 2009
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