L’ultimo giro di danza, infatti, si è concluso venerdì assieme alla visita cinese del Segretario per l’energia americano, Steve Chu, e quello di per il commercio Gary Locke. Una missione diplomatica che pur evitando accuratamente le questioni calde e spinose da risolvere tra i due maggiori emettitori mondiali ha segnato un passo avanti verso un accordo mondiale. Il risultato tangibile, dal grande valore simbolico oltre che pratico, è un programma di ricerca congiunto sulle tecnologie low-carbon.
Con un finanziamento comune di 15 milioni di dollari le due potenze che assieme emettono il 42% dei gas serra annuali del pianeta, hanno annunciato la nascita dell’ U.S.-China Clean Energy Research Center. L‘istituto, che avrà centri operativi in entrambi i paesi, servirà a lavorare insieme sulle soluzioni per ridurre le emissioni climalteranti. Si occuperà di efficienza energetica degli edifici, ma anche di mobilità sostenibile, rinnovabili, nucleare e cattura della CO2. Il progetto sull’ edilizia a basso consumo è stato presentato proprio durante una visita di Chu a un modello di casa ecosostenibile realizzata in Cina da ricercatori americani e metà della cubatura in costruzione nel mondo è nel gigante asiatico.
Che entrambe le superpotenze stiano investendo nella green economy è chiaro e ne abbiamo scritto più volte parlando sia delle politiche di Obama che di quelle del Governo cinese, ad esempio, per le rinnovabili o per lo sviluppo dell’industria delle auto elettriche. Un terreno dalle grandi prospettive in cui si mischiano competizione economica e lotta alle emissioni: come fa notare tra le righe il Financial Times qualche azienda americana del settore sarebbe preoccupata di eventuali regali in termini di know-how alle concorrenti cinesi. Forse anche per questo a tenere occupato il nuovo U.S.-China Clean Energy Research Center sembra che sarà in gran parte la ricerca sulla cattura della CO2: tecnologia dai costi particolarmente alti e dai risultati ancora incerti, ma fondamentale per entrambi i paesi, visto che contano ancora molto sul carbone: gli Usa per poco meno della metà della produzione elettrica, la Cina per oltre l’80%.
Insomma, il cammino per Copenhagen procede anche gettando ponti di collaborazione tecnologica. Proprio il trasferimento di tecnologie dai paesi ricchi a quelli in via di sviluppo, assieme alla creazione di un fondo per aiutarli a combattere e ad adattarsi agli effetti del riscaldamento è una delle richieste della Cina nel negoziato internazionale, oltre a quella che i paesi industrializzati taglino la CO2 almeno del 40% entro il 2020 dai livelli del 1990. Che il passo avanti fatto, con la creazione dell’ U.S.-China Clean Energy Research Center, lasci irrisolto il problema di un accordo sulle emissioni tra i due giganti d’altra parte non c’è bisogno di dirlo.
Il gioco, semplificando, resta quello del “si, ma prima tu”: negli Usa un fronte interno teme la competizione della Cina nel caso questa non si dia regole severe sulle emissioni e per questo si oppone a un impegno americano forte, dall’altra parte, prima di impegnarsi Pechino chiede ai paesi di prima industrializzazione, in quanto più ricchi e maggiormente responsabili dell’effetto serra, obiettivi coraggiosi e aiuti.
GM
20 luglio 2009