Per Confindustria le rinnovabili sono un peso

  • 13 Luglio 2009

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Il Tavolo della Domanda di Confindustria dice che il prezzo che consumatori e aziende pagano per gli incentivi alle fonti pulite è un peso per il Paese. Ma, ribatte Aper, costerebbe molto di più non investirvi e si perderebbe anche una grande opportunità. Secondo il CER gli obiettivi 2020 possono far crescere l'economia di oltre 7 punti di Pil.

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Le fonti rinnovabili sono un peso per il paese. Un onere per il sistema produttivo e i consumatori che grava per un importo “paragonabile a quello di una manovra finanziaria”. È quello che pensa il Tavolo della Domanda di Confindustria. La componente che in bolletta va a finanziare gli incentivi per le fonti pulite, assieme al costo dei Certificati Verdi (che i produttori di energia devono acquistare non producendo abbastanza energia da rinnovabili) secondo il Tavolo costerebbe troppo per un’economia in crisi: “complessivamente il gettito (dal lato del consumatore, il costo!) per la componente A3 – si spiega in una nota – ha superato i tre miliardi di euro annui, a cui si deve aggiungere il costo per i Certificati Verdi, circa 700 milioni di euro”.

Gli impegni presi dall’Italia in sede europea – spiega l’organismo degli industriali – a loro volta comporteranno un notevole aumento dei costi. Il rischio, si sottolinea, è che “al fine di sostenere lo sviluppo della ‘nuova’” industria, si penalizzi e si mettano i presupposti per la chiusura della ‘vecchia’”. Una dichiarazione che – detto per inciso – non fa menzione del fatto che il 70-75% delle risorse incluse nella componente A3 (CIP6) va ad altre tecnologie, tutt’altro che basate su fonti rinnovabili, come ad esempio agli scarti di raffineria e agli inceneritori. E che arriva proprio mentre la presidente di Confindustria  Emma Marcegaglia esterna il suo sostegno al rilancio del nucleare in Italia: una tecnologia, come abbiamo più volte raccontato, dai costi elevatissimi che con ogni probabilità (si vedano gli esempi di altri mercati liberalizzati, Usa in primis) finiranno per pesare su Stato e consumatori.

Ma qual è il vero costo delle fonti pulite? È proporzionato o meno ai danni che evita e ai vantaggi che dà? Aper, l’associazione dei produttori di energia rinnovabile, in un documento (vedi allegato) diffuso quasi in risposta alla nota del Tavolo della Domanda, prova a fare un altro conto: quello che costerebbe non investire in rinnovabili. Un calcolo complicato dato che, come spiega a Qualenergia.it il presidente di Aper, Roberto Longo, si dovrebbero comprendere voci di difficile quantificazione monetaria. Provando a stimare solo le sanzioni europee all’Italia, qualora non riuscisse a rispettare gli obiettivi europei del 2020, Aper parla di un danno di 4,8 miliardi di euro all’anno. Un prezzo che già supera quello degli incentivi stanziati al momento e a cui bisognerebbe aggiungere altri costi: le esternalità ambientali e il fatto che, non riducendo la dipendenza dai combustibili fossili, il paese rimarrebbe maggiormente esposto alla volatilità dei prezzi e alla dipendenza dall’estero per petrolio e gas.

“Ma il maggior costo che verrebbe sostenuto – commenta Longo – sarebbe in realtà il non aver colto un’irripetibile occasione di sviluppo, di creazione di valore e occupazione mediante l’attività imprenditoriale.” Secondo Aper per raggiungere gli obiettivi 2020 verrebbero messi in campo investimenti per 75 miliardi di euro, contribuendo a un aumento di Pil di 5 miliardi all’anno e portando gli occupati nel settore a 235.000 unità, con un incremento netto di 120.000 posti di lavoro. Una visione, quella degli obiettivi 2020 come opportunità economica anziché come costo, rafforzata in questi giorni anche dall’analisi degli economisti del Centro Europeo di Ricerca (CER).

In un lavoro presentato la settimana scorsa (vedi allegato) il CER ha infatti valutato l’impatto su disavanzo pubblico e crescita economica dello sforzo per raggiungere gli obiettivi europei su rinnovabili e taglio delle emissionii. Conclusioni: raggiungere l’obiettivo europeo 2020 sulle rinnovabili, il 17% dei consumi totali di energia, graverebbe inizialmente sul debito pubblico (fino al 2011-2012), ma poi lo ridurrebbe arrivando a un – 0.4% complessivo al 2020. Per quanto concerne il Pil, nello stesso periodo, grazie alla sviluppo delle rinnovabili lo si vedrebbe crescere del 6%.

Investire solo nelle energie pulite, secondo il CER, non consentirebbe però di raggiungere gli obiettivi 2020: essenziale puntare anche sull’efficienza energetica. E anche dal punto di vista economico lo scenario più promettente è quello che vede le fonti pulite abbinate all’efficienza spinta: in questo caso il disavanzo pubblico inizialmente crescerebbe di più (ma poi si ridurrebbe arrivando a -0,4% nel 2025), mentre il Pil al 2020 risulterebbe aumentato di oltre il 7% fino ad arrivare a un + 7,5% al 2025.

Insomma, i calcoli da fare sulla questione rinnovabili e obiettivi 2020 paiono essere un po’ più articolati rispetto alla banale somma degli incentivi fatta dal Tavolo della Domanda di Confindustria. Con una visione solo leggermente più ampia è chiaro che quei soldi vanno considerati come investimenti e non come costi. Forse l’organizzazione degli industriali italiani dovrebbe iniziare a ragione sul lungo termine anziché sul brevissimo e considerare gli interessi del sistema-paese, e non solo quelli di alcuni comparti produttivi.

GM

13 luglio 2009

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