Clima e multinazionali, tra vertici e greenwashing

  • 26 Maggio 2009

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Al World Business Summit on Climate Change di Copenhagen grandi corporation e rappresentanti Onu si  sono riuniti in vista dell'accordo di dicembre. Ma coinvolgere i lobbisti nei negoziati per alcuni rischia di essere un cavallo di troia ed ecco che al summit arrivano i premi "greenwashing". Sul podio anche Shell.

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Arruolare nella lotta al global warming chi avrebbe più interesse a boicottare qualsiasi misura anti-emissioni . O almeno negoziare apertamente con i giganti economici per evitare posizioni ostruzioniste sull’accordo sul clima per il post-Kyoto. A Copenhagen, in questi giorni, i vertici di 500 tra le più grandi aziende del pianeta si sono incontrati con i rappresentanti delle Nazioni Unite che stanno lavorando per l’accordo che si discuterà a dicembre.

Un incontro importante, quello del World Business Summit on Climate Change, che sulle pagine dei giornali è arrivato soprattutto con le dichiarazioni di intenti verdi di qualche grande multinazionale e con gli appelli lanciati in questa occasione dal segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon e da Al Gore. Ma il fatto che l’agenda dell’azione contro il cambiamento climatico venga discussa con chi ha più interesse a intralciarla ha suscitato anche dubbi e timori di un “dirottamento” del dibattito.

“Dobbiamo farlo quest’anno. Non l’anno prossimo – ha ammonito Gore all’incontro riferendosi all’accordo mondiale – perché la lancetta sta camminando e Madre Natura non fa operazioni di salvataggio a posteriori”. Ancora più diretto il messaggio di Ban Ki-moon, solo poche aziende, ha sottolineato, stanno facendo della lotta al global warming una priorità, mentre la maggior parte o stanno a guardare o difendono lo status quo: “Per quelli di voi che stanno direttamente o indirettamente facendo azione di lobbying contro la lotta al cambiamento climatico, ho un messaggio chiaro: le vostre idee sono superate e il vostro tempo sta per scadere.”

Dal fronte industriale, invece, sono arrivate prese di posizioni differenti e spesso ambigue. I dirigenti di alcune delle più grandi compagnie mondiali, come riporta il Wall Street Journal, starebbero spingendo affinché a dicembre si raggiunga un accordo forte, che garantirebbe la chiarezza e la stabilità necessaria per investimenti a lungo termine: un campo da gioco comune con regole certe e uguali per tutti. Da altri invece torna il solito allarme per gli effetti negativi che le misure anti-emissioni potrebbero avere sulla ripresa economica: un argomento portato avanti in primo luogo dalla Camera di Commercio Usa, dalla quale si sono però smarcate aziende importanti come Nike e Johnson & Johnson.

Ma quanto deve essere coinvolto il mondo economico nelle decisioni da prendere per fermare il riscaldamento globale? Il rischio di far sedere al tavolo dei negoziati i giganti del capitale è che l’agenda venga distorta, privilegiando non le misure più efficaci, ma quelle che farebbero loro un danno minore. Come la cattura della CO2, sulla quale le grandi compagnie delle fonti fossili stanno puntando molto e che sta ricevendo molti finanziamenti e attenzioni politiche, pur essendo una tecnologia ancora in fase embrionale e di dubbia applicabilità su larga scala. L’unica certezza sulla CCS per ora infatti è che non potrà essere messa in pratica in misura rilevante per il 2012 quando entrerà in vigore il nuovo accordo che si stabilirà a Copenhagen (per diffusione su larga scala forse bisognerà attendere almeno fino al 2020). E proprio il fatto di dipingere la CCS come soluzione risolutiva, continuando nel frattempo pratiche insostenibili come lo sfruttamento delle sabbie bituminose, è valso a Shell il secondo posto ai Greenwash Climate Awards 2009, assegnanti proprio in occasioni del vertice.

Tutte le prime sei posizioni di questa disonorevole classifica, stilata da associazioni come Corporate Europe Observatory, ATTAC, e Friends of the Earth, sono occupate da grandi aziende che hanno partecipato attivamente al summit. La “vincitrice” è stata la compagnia petrolifera di stato svedese Vettenfell, per la sua prosecuzione del business as usual , mentre, ridipintasi di verde, ha creato un gruppo di lobbying apposito, Combat Climate Change, per promuovere tecnologie “climate friendly”, leggasi cattura della CO2 e nucleare. Seguono, dopo Shell, Dong, Arcelor Mittal, BP e Repsol.

Una menzione speciale infine è andata al Governo Danese che ha organizzato il World Business Summit on Climate Change “per aver fornito ai lobbisti un accesso diretto e privilegiato ai negoziatori prima degli UN Climate Change talks di dicembre”. Sul vertice, infatti, la visione delle ONG che hanno promosso i Greenwash Climate Awards è netta: “I lobbisti delle multinazionali hanno tentato fin dall’inizio di influenzare i negoziati Onu sul clima – spiega Kenneth Haar ricercatore di Corporate Europe Observatory – ma ora sono stati invitati a definire l’agenda ancora prima che ci si sieda ai tavoli delle trattative. Se le loro richieste fossero ascoltate potremmo anche fermarci qui con la lotta al cambiamento climatico.”

GM

26 maggio 2009

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