Stallo sugli accordi per il clima

  • 15 Aprile 2009

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I colloqui di Bonn sul clima hanno evidenziato posizioni distanti tra la quasi totalità dei paesi industrializzati, con obblighi di riduzione vincolanti, e i paesi in via di sviluppo che vogliono evitare di ripartire le responsabilità globali. Il dopo-Kyoto si fa allora più difficile. Il resoconto per Qualenergia.it di Leonardo Massai.

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Mercoledì 8 aprile poco prima della mezzanotte si sono chiusi a Bonn i lavori dei gruppi di lavoro incaricati di definire il futuro del regime internazionale sui cambiamenti climatici, rispettivamente quinta sessione del gruppo relativo alla Convenzione ONU sui cambiamenti climatici (Working Group on Long-term Cooperative Action – AWG LCA) e settima sessione del gruppo relativo al protocollo di Kyoto (Working Group on the Kyoto Protocol – AWG KP). Ne avevamo illustrato l’andamento in un nostro precedente articolo.

Il summit, il primo di una lunga serie che nel 2009 accompagneranno migliaia di delegati a Copenhagen in dicembre per risolvere il dilemma del futuro della lotta internazionale al riscaldamento globale, aveva come obiettivo principale la preparazione delle prime bozze di emendamento e modifica delle regole attuali in vigore fino al 2012.
Il risultato della riunione di Bonn è rappresentato dall’adozione di una serie di conclusioni che in molti casi evitano di concentrarsi sui temi più delicati e spostano il problema a giugno 2009, quando la prossima riunione degli organi sussidiari della Convenzione prevista a Bonn dall’1 al 12 dovrà pronunciarsi definitivamente almeno sulle proposte di emendamento del protocollo di Kyoto. In base alle regole attuali, infatti, le Parti del Protocollo di Kyoto devono presentare al segretariato della Convenzione eventuali proposte di emendamento almeno sei mesi prima della riunione della Conferenza delle Parti (dicembre 2009).

Dei molti temi in discussione a Bonn, due in particolare sono le questioni più controverse emerse. Da una parte le questioni giuridiche relative a possibili emendamenti delle regole e degli obblighi di riduzione attuali in visione futura. A tale riguardo le conclusioni adottate dalle parti in riunione plenaria rappresentano un perfetto cocktail di insoddisfazione per tutti – balance of unhappiness come indicato dal parole del presidente di commissione. Dall’altra, le questioni legate ai nuovi obblighi vincolanti di riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra per i paesi industrializzati.
In questo ambito, il quadro che emerge dalla sessione di Bonn appena conclusa è quello di una divisione netta e chiara tra la quasi totalità dei cosiddetti paesi allegato I (paesi industrializzati) con obblighi di riduzione vincolanti nell’ambito del protocollo di Kyoto e i paesi in via di sviluppo (non allegato I).
Il cavillo giuridico alla base di tale divisione è rappresentato dalla diversa interpretazione del mandato (articolo 3.9 del protocollo di Kyoto) e degli obiettivi perseguiti dal gruppo di lavoro sul protocollo di Kyoto. Un mandato chiaro e preciso secondo i primi; ossia modificare l’allegato B del protocollo di Kyoto contenente gli obblighi quantificati di riduzione e limitazione e definire i periodi futuri di adempimento. Un mandato da interpretare in maniera più ampia secondo gli altri; ossia un obbligo non scritto di garantire convergenza e coerenza tra i due gruppi di lavoro (Convenzione e protocollo) finalizzato all’adozione di un unico accordo globale a Copenhagen.

In altre parole, i paesi in via di sviluppo puntano all’adozione di obblighi vincolanti chiari e precisi nei confronti dei paesi industrializzati anche per il periodo post-2012. Inoltre, alcuni paesi non industrializzati come Cina, India e Brasile non vogliono assolutamente mettere in discussione il loro status di paesi in via di sviluppo ovvero mischiare e confondere le discussioni e i negoziati nell’ambito del protocollo con quelli legati alla convenzione. L’obiettivo è quello di evitare di essere coinvolti nella definizione di una nuova ripartizione delle responsabilità che inevitabilmente comporterebbe obblighi anche per tali paesi.
Al contrario, per la maggior parte dei paesi industrializzati è fondamentale unire i due livelli di negoziato al fine di poter condividere anche con nuovi attori il peso della lotta internazionale al riscaldamento globale. Tra i paesi più combattivi nei due schieramenti, da segnalare Bolivia, Sudan, Sud Africa, Botswana, Alleanza delle Piccole Isole, Bangladesh, Gruppo dei Paesi Africani, India, Cina, Indonesia, Corea, Filippine per i paesi in via di sviluppo; e Giappone, Canada, Australia, Federazione Russa, Nuova Zelanda, Croazia, Turchia, Ucraina per i paesi industrializzati. Nel mezzo, almeno ufficialmente, la posizione dell’Unione europea, che, al contrario di molti altri paesi allegato I ha già indicato espressamente i propri obblighi di riduzione interni (-20% al 2020 e -30% al 2020 nel caso un soddisfacente accordo internazionale venga concluso a Copenhagen).

Il quadro e le relazioni tra i paesi coinvolti nel negoziato è in realtà molto meno definito e netto di come sembra, e questo è dovuto principalmente alle enormi divisioni all’interno del gruppo dei paesi in via di sviluppo. Il cosiddetto gruppo dei 77 e Cina include tra le sua fila paesi che in termini di emissioni di gas ad effetto serra e tasso di sviluppo niente hanno da invidiare ai maggiori paesi occidentali. Su tutti, Cina, India e Brasile. E soprattutto, include alcuni paesi OPEC detentori di importanti risorse petrolifere: Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti. La tattica sembra essere sempre la stessa: aspettare le mosse dell’avversario e usare ogni tipo di espediente per ritardare ogni tipo di assunzione di responsabilità presenti, passate e future nella lotta ai cambiamenti climatici.

Lo stallo di Bonn sembra iniziare ad impensierire i delegati e il segretariato della Convenzione. Per la prima volta, in maniera piuttosto informale, sono infatti emersi i primi malumori e riferimenti al risultato finale di questo processo, ossia l’accordo da conseguire a Copenhagen nel dicembre 2009.
Di questo si tratta e si discute: creare le premesse e gettare le basi per decisioni importanti finalizzate a ridurre le emissioni climalteranti a livello mondiale. A tale riguardo, alcune delegazioni dei paesi in via di sviluppo hanno denunciano più volte e in maniera indiretta anche nella sessione plenaria finale, un clima negoziale sbagliato, un clima del prendere o lasciare, un clima dove si è messi con le spalle al muro. Critiche appoggiate da molte altre delegazioni, tra cui, abbastanza sorprendentemente, Unione europea e Arabia Saudita.

In questa situazione, uno dei contrasti più aspri è quello tra Giappone e Cina. Secondo la delegazione giapponese lo scopo del gruppo di lavoro sul protocollo di Kyoto è quello di garantire coerenza e coesione e un collegamento diretto con i lavori della Convenzione, che ricordiamolo ancora una volta, si differenzia dal protocollo per il suo carattere non vincolante. Per il Giappone un nuovo accordo globale che comprenda una ridefinizione degli attori e degli obblighi è fondamentale, così come il bisogno di includere tutti i paesi più importanti in questa grande famiglia. A tale riguardo, la delegazione giapponese ha più volte espresso seri dubbi sui lenti progressi del gruppo di lavoro sul protocollo di Kyoto che rischiano di minare il risultato finale di Copenhagen. Al contrario, la Cina si è dichiarata assolutamente delusa delle conclusioni adottate nell’ambito di un gruppo di lavoro il cui mandato è talmente chiaro e inequivocabile da non meritare una lunga discussione – estreme disappointment for a conclusion of no conclusion.
La delegazione cinese ha espressamente denunciato il tentativo da parti di alcuni paesi industrializzati di collegare deliberatamente i due processi negoziali al fine di ritardare decisioni concrete. La convergenza tra i negoziati del protocollo con i negoziati della Convenzione è assolutamente inaccettabile per i cinesi che hanno invitato i paesi allegato I ad un maggiore realismo. Un realismo che secondo Pechino vede i maggiori paesi occidentali continuare ad ignorare le proprie responsabilità storiche ed evitare di assumere la leadership in questo processo.

Al quarto anno di negoziato per il post-2012 molte parti si sarebbero aspettate di vedere nelle conclusioni della riunione di Bonn i primi timidi numeri in termini di riduzioni aggregata e individuale delle emissioni dei gas climalteranti da parte dei paesi industrializzati. In realtà, tali numeri erano stati presentati da alcuni paesi in via di sviluppo, ma è mancato il consenso delle parti a tale riguardo. Noi, comunque, li ricordiamo: una riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra dei paesi allegato I in aggregato di almeno 45% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2020 e almeno il 95% entro il 2050.

Leonardo Massai
[email protected]

15 aprile 2009

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