Biocarburanti, tra obbligo e sostenibilità

  • 30 Marzo 2009

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Nel 2020 il 10% dei carburanti in Europa dovrà essere di origine agricola. La Direttiva è vicina all'approvazione. Ma come conciliare il nuovo obbligo con la sostenibilità? Ne parliamo con Giampietro Venturi, chairman della Piattaforma Biofuels Italia e membro dello Steering Committee of the European Biofuels Technology Platform.

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La Direttiva europea sui biocarburanti è in dirittura d’arrivo. I lavori stanno andando avanti proprio in questi giorni e si presume venga approvata in via definitiva entro maggio. Nel 2020, previa conferma nel 2014, il 10% dei carburanti tradizionali sarà dunque sostituito dai biocombustibili in tutti gli Stati membri. Ma tra le rinnovabili, come abbiamo raccontato spesso su queste pagine, i biofuels sono probabilmente la fonte energetica che ha suscitato più dubbi. Sotto accusa l’impatto ambientale, la concorrenza con la produzione alimentare e la reale efficacia in termini di riduzione della CO2. Come riuscire a raggiungere l’obiettivo europeo minimizzando gli impatti negativi?

Ne abbiamo parlato con il professor Giampietro Venturi del Dipartimento di Scienze e Tecnologia Agroambientali dell’Università di Bologna, chairman della Piattaforma Biofuels Italia e membro dello Steering Committee of the European Biofuels Technology Platform.

Professore, l’approvazione dell’obiettivo europeo in materia è imminente, ma i dubbi sui biocarburanti  restano forti.  A partire dal fatto che, considerando l’intero ciclo di vita dei biocarburanti il bilancio in termini di gas serra non sarebbe così favorevole …
Effettivamente la questione è dibattuta. Per quanto riguarda le emissioni però va detto che i dati al centro del dibattito vengono da uno studio (quello del Nobel per la chimica Paul Crutzen, visibile qui ndr) in cui si è esaminato solamente il caso della colza e non di tutti i possibili biocarburanti. O meglio – come mi ha raccontato chi ha fornito i dati per lo studio – si è preso un aspetto valido per una coltivazione e lo si è generalizzato, da cui i bilanci non particolarmente brillanti. Altre colture che si potrebbero usare anche in Italia, come ad esempio il mais, hanno invece bilanci buoni in termini di emissioni. Con il mais si evitano dalle 2 alle 8 tonnellate di CO2 per ettaro, mentre con la colza si parla di 0,2 a 2,5.

Sono bilanci in cui si considera anche il cambio d’uso del suolo; penso infatti all’eventuale deforestazione?
No, non è considerato. In Europa sarebbe impensabile deforestare per fare biocarburanti. Questo aspetto assume invece un peso rilevante in contesti come quelli dei paesi tropicali, ad esempio nel caso dell’olio di palma: deforestare per produrre diesel da palma farebbe molti più danni di quello che sarebbe il vantaggio, perché si tratta di terreni profondi in cui è accumulata una grande quantità di carbonio. Coltivare colture da etanolo o da diesel da noi, in terreni già impoveriti, sottoposti ad erosione o lisciviazione, al contrario, sarebbe ambientalmente vantaggioso. Non si può generalizzare. I biofuels fanno bene in alcune situazioni e fanno male in altre.

Nell’ambito della normativa europea in corso di approvazione quali sono le misure che si stanno prevedendo per minimizzare gli impatti negativi e massimizzare i vantaggi?
Le limitazioni e gli standard che si stanno ponendo per fare sì che i biocarburanti siano sviluppati in modo sostenibile sono molti, superiori a quelli di qualsiasi altro tipo di coltura. Assieme alla direttiva carburanti verrà approvata una direttiva sulla sostenibilità. Ad esempio, si prevedono standard in quanto a emissioni risparmiate: almeno il 35% in meno (rispetto ai combustibili tradizionali, ndr) che verrà innalzato fino al 60% dopo il 2017. La direttiva spiega anche come si calcolano le emissioni, tenendo conto dell’intero ciclo di vita: dalle materie prime impiegate nella coltivazione al trasporto. Poi ci sono misure per la tutela della biodiversità e del paesaggio, che spiegano che “si devono escludere dalla coltivazione aree ad “elevato tasso di biodiversità”, come foreste, praterie, zone umide, ecc. Inoltre, non si potranno coltivare biocarburanti su terreni ad alto contenuto di carbonio. Dove si punterà ai biocarburanti ci si dovrà muovere in maniera sostenibile.

Con queste limitazioni sarà ancora conveniente coltivare biocarburanti in Europa? Non c’è il rischio che si ricorra a combustibile d’importazione, la cui sostenibilità ambientale è più difficile da verificare?
La norma è effettivamente abbastanza limitante, non mancano comunque in Europa le aree in cui si potrebbe coltivare. In Italia, ad esempio, si è previsto di farlo su 600-800mila ettari: zone agricole che sono in crisi, come quelle che stanno soffrendo per la chiusura degli zuccherifici o per i prezzi dei cereali tornati così bassi; si parla di un 11% di terreni agricoli non seminati. Il problema è appunto se sarà ancora conveniente coltivare biocarburanti. La mia opinione è che non ci siano grandi opportunità, almeno per quelli di questa generazione e dubito che si raggiungerà la quota prefissata di origine italiana (l’Italia prevede che il 20% dei biocombustibili che saranno usati debba essere di origine interna, ndr). Per quanto riguarda le importazioni, l’Ue ha preso delle misure per tutelarsi, ad esempio ora ha bloccato i biofuels dagli Usa a causa della politica di dumping statunitense. Riguardo alle importazioni da altri paesi, come il Brasile, in teoria non si dovrebbe importare qualcosa che è prodotto “male”, ma non ho idea di come faranno a far rispettare questa condizione.

Molti dei problemi legati all’uso dei biocarburanti promettono di essere risolti da quelli cosiddetti di seconda generazione. Quali sono le colture più promettenti e quando prevede che questi nuovi agrocarburanti saranno pronti per essere commercializzati?
Dal punto di vista agricolo ci sono molte piante, specie pluriennali, che possono funzionare. Il vantaggio principale di queste colture è che bloccano la CO2 nel terreno, perché non necessitano di aratura. Si tratta poi di individuare le tecniche e i tipi di coltivazione più adatti ai vari ambienti. La parte da cui dipende il tempo necessario a che i combustibili di seconda generazione vengano commercializzati, e che mi compete meno, è soprattutto quella della trasformazione: c’è chi dice che ci saranno già tra 2-3 anni e chi tra 10. Si sta comunque spingendo molto, specie nel campo della ricerca a livello europeo su microorganismi e pareti cellulari. Le prospettive sono molto buone sia da un punto di vista economico che ambientale.

GM

30 marzo 2009
 
 
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