La cura per l’economia mondiale

  • 18 Marzo 2009

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Le misure per ridurre le emissioni, in un contesto di crisi come quello attuale, faranno crescere il Pil mondiale, hanno spiegato gli economisti all'International Scientific Congress on Climate Change di Copenhagen. Ma le decisioni vanno preso a livello globale.

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La lotta al cambiamento climatico farà crescere il Pil mondiale anziché frenarlo. Se, tra quelle portate all’International Scientific Congress on Climate Change, ci sono delle evidenze che giustificano l’ottimismo, sono quelle che affrontano dal punto di vista economico le strategie per contrastare il fenomeno. Il modello economico presentato da un gruppo di economisti dell’Università di Cambridge al congresso conclusosi la settimana scorsa a Copenhagen, prevede infatti che anche le misure di riduzione delle emissioni più severe saranno uno stimolo alla crescita economica se i governi le sapranno usare nel modo giusto.
Una previsione che rovescia le precedenti analisi, che consideravano come costi le politiche di contenimento dei gas serra. I calcoli secondo i quali mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi centigradi sarebbe costato dall’1 al 3% del Pil mondiale, ha spiegato Terry Barker, direttore del Cambridge Centre for Climate Change Mitigation Research, sono basati su assunti sbagliati: in particolare non terrebbero conto dell’alta disoccupazione e del sottoutilizzo della capacità produttiva che caratterizzano il contesto economico attuale.

Le politiche di riduzione delle emissioni, dunque, in un contesto depresso come quello che abbiamo, diventano opportunità anziché un esborso di denaro: “Ci sono prove che regole più severe in materia di gas serra – ha spiegato Barker all’incontro – porterebbero vantaggi, stimolando l’innovazione e la vendita di tecnologie low-carbon e raccogliendo denaro da tasse e permessi. Questi ricavi possono essere spesi per sostenere le nuove tecnologie e per abbassare altre tasse indirette, assicurando così la neutralità fiscale delle misure”.

Politiche che, per avere la massima efficacia in quanto a rilancio economico, devono essere applicate in tutto il mondo in modo coordinato: “Se tutti i paesi del G20 adottassero un Green New Deal sul modello di quello proposta dal presidente Obama, l’economia mondiale verrebbe enormemente rafforzata. Ma la coordinazione a livello globale è un aspetto altamente critico. Il New Deal di un singolo paese fallirebbe se la domanda extra di beni e servizi (low-carbon, ndr) fosse soddisfatta con le importazioni. Se agiamo assieme l’export di tutti aumenterà e potremmo ricreare occupazione molto più in fretta”. Con le risorse create nei paesi del G20 tramite l’economia low-carbon, ha aggiunto Barker, si potrebbe dar vita a una sorta di “Piano Marshall per il clima” che aiuti i paesi in via di sviluppo ad adattarsi al riscaldamento globale e ad emettere meno.
Concetti, quelli esposti dal team di economisti di Cambridge, che ripetono quanto raccomandato da Nicolas Stern e colleghi in un recente documento. L’economista inglese, intervenuto anche lui al congresso di Copenhagen, ha ribadito la raccomandazione che almeno il 20% delle risorse stanziate dai piani anticrisi mondiali vadano a stimolare l’economia verde. In un contesto di crisi, ha spiegato, il costo degli investimenti per combattere il global warming è calato, mentre i rendimenti a medio e lungo termine restano uguali, rendendo più convenienti le scelte verdi.

Lottare contro il global warming, dunque, crea ricchezza. Sembra questo il messaggio che l’International Scientific Congress on Climate Change porterà al summit che si terra sempre a Copenhagen a dicembre. Che i costi del non agire siano insostenibili, invece, si sapeva già dai tempi del primo rapporto Stern. L’economista inglese ora sottolinea come siano più ingenti di quanto da lui stesso stimato nel 2006.
Per ricordare quante siano le conseguenze economiche dei cambiamenti climatici e quanti ambiti diversi vadano a colpire, vi lasciamo con tre dati emersi dalla conferenza: il settore forestale europeo potrebbe perdere 200 miliardi di euro entro il 2100 solo per i mutamenti del tipo di vegetazione; il Giappone potrebbe avere entro il 2085 danni pari all’1,5-3,4% del Pil solo per l’impatto delle condizioni meterologiche sull’attività dei porti; mentre gli indiani che lavorano all’aperto, se la temperatura aumentasse di soli 2 gradi, avrebbero comunque un calo di produttività del 30% rispetto ai livelli del 1980.

 
GM
 
18 marzo 2009
 
 
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