Il clima che informa aziende e investitori

  • 15 Febbraio 2009

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Con la presentazione a Roma del primo rapporto Carbon Disclosure Project per l'Italia c'è stata l'occasione di far conoscere nel nostro paese un importante progetto che punta a far crescere in tutti i settori economici la consapevolezza dei rischi e delle opportunità legate ai cambiamenti climatici.

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“Carbon Disclosure Project (CDP) si fonda su un semplice principio: le informazioni fornite dalle aziende possono far crescere l’efficienza, concorrono a risparmiare costi inutili e salvare il pianeta dai pericoli dei cambiamenti climatici. La forza dell’idea di fondo del CDP è che gli investitori possano chiedere alle aziende di misurare le proprie emissioni allo scopo di migliorare l’efficienza dei mercati di capitali” ha detto Sylvie Giscaro, direttrice del CDP Europe nel corso del convegno “Carbon Disclosure Project (CDP), Rapporto Italia“, organizzato da Kyoto Club, Monte dei Paschi di Siena e Erm Italia a Roma il 13 febbraio.

Dunque, alla base del CDP c’è l’obiettivo di migliorare la comprensione dei rischi di sistema per poterli meglio gestire nell’eventualità in cui ci si troverà di fronte a rischi climatici di più vasta scala e con conseguenze enormi per le nostre società. Rischi certamente più critici di quelli che stiamo sperimentando in questa fase di crisi economica e finanziaria.
Il Carbon Disclosure Project, costituito ormai otto anni or sono, quindi ha lo scopo di fornire dati per richiamare l’attenzione della comunità finanziaria e per sollecitare il mondo industriale e il settore privato in generale a gestire meglio le proprie attività. Capire cioè in che termini e in che misura i cambiamenti climatici e le relative strategie di risposta influiscono sulle scelte degli investitori nella gestione dei propri portafogli in un’ottica di massimizzazione del valore per i propri beneficiari.

Emettere gas ad effetto serra è considerata in molte parti del mondo una passività per le aziende, che può essere misurata e messa in bilancio e ridurre la CO2 è un valore. Se i governi disattendono le aspettative sul global warming il mercato può invece tenerne conto. Come spesso si afferma il consumatore può votare ogni volta che spende del denaro e premiare così le aziende che meglio reagiscono al problema. Anzi, questo approccio può diventare per le società un’opportunità di sviluppo.

Al centro del convegno di Roma c’è stato il primo rapporto Carbon Disclosure Project per l’Italia, presentato nei suoi rilievi statistici da Roberto Giacomelli di Erm Italia.
I primi studi per il CDP sulle società italiane sono stati realizzati nel 2007 e 2008, considerando le 40 aziende con la maggiore capitalizzazione sul mercato borsistico italiano (S&P/MIB). Di queste, otto appartengono anche al Global 500 e una al France 120. Fra le 40 aziende partecipanti solo 18 hanno risposto al questionario (45%) e, di queste, 12 (35%) hanno acconsentito a rendere pubbliche le informazioni fornite, mentre 4 (10%) hanno richiesto che le risposte venissero mantenute riservate. Va detto che il tasso di risposta del Global 500 è stato invece del 77%. Nel rapporto italiano comunque sono stati considerati tutti i principali settori dell’economia italiana.

Questo primo rapporto italiano di CDP va considerato, dunque, solo un punto di partenza per delineare più chiaramente la situazione delle aziende in relazione al tema dei cambiamenti climatici. Il campione su cui si è realizzata l’analisi è infatti piuttosto limitato, di conseguenza, i risultati non possono essere considerati come pienamente rappresentativi della situazione italiana complessiva.
Ciononostante, dai dati disponibili possono essere tratte alcune considerazioni interessanti. Infatti le rilevazioni mostrano, rispetto all’anno precedente, una maggiore consapevolezza dei rischi associati ai cambiamenti climatici, ma si evidenzia soprattutto che il climate change è visto dalle società più come un’opportunità che come un rischio.

Nell’ambito dei rischi associati ai cambiamenti cimatici, la maggior parte delle società valuta i rischi normativi come un possibile problema per il proprio mercato. Ad esempio è molto sentito, soprattutto per settori ad alta intensità di energia, il rischio connesso all’ETS e ai suoi possibili sviluppi futuri.
Una percezione del rischio è stata constatata per i rischi fisici e generali. Il rischio fisico può essere associato ad esempio alla riduzione nella produzione di energia idroelettrica o a rischi diretti o indiretti connessi all’aumento di fenomeni atmosferici estremi. Tra i rischi generali, un esempio è dato dai danni connessi alla reputazione della società e a causa della riduzione del valore delle azioni.
Rispetto al 2007, come detto c’è una maggiore percezione dei rischi associati ai cambiamenti climatici:
• Rischi normativi: 67% nel 2008 contro il 40% nel 2007
• Rischi fisici: 72% nel 2008 contro il 25% nel 2007
• Rischi generali: 67% nel 2008 contro il 35% nel 2007

Si vede che la percezione delle tre categorie di rischio è simile e questo può essere dovuto a due fattori: il climate change è visto come un rischio significativo per tutte le dimensioni considerate oppure manca un’approfondita conoscenza dei problemi connessi alla questione e, quindi, diversi tipi di rischio sono percepiti allo stesso modo.

Interessante è il fatto che la quasi totalità delle aziende (93%) intravede anche delle opportunità nei cambiamenti climatici. Il settore finanziario, in particolare, intuisce l’opportunità di sviluppare nuovi servizi finanziari e assicurativi a sostegno di investimenti a basso tenore di carbonio e per le attività di adattamento e mitigazione. Per i produttori e i distributori di energia l’opportunità risiede nel mercato dei titoli di emissione, dei titoli di efficienza energetica e dei certificati verdi.

Per quanto riguarda la misurazione delle emissioni di gas a effetto serra queste sono classificate secondo le linee guida del “World Resources Institute and World Business Council for Sustainable Development”.
Il 78% dei partecipanti è in grado di fornire dati sulle proprie emissioni dirette in accordo con la definizione di emissioni di “Scopo 1” del Protocollo. I numeri relativi alle emissioni indirette derivanti dall’acquisto di energia elettrica, calore e vapore (Scopo 2) sono stati comunicati, invece, dal 67% delle compagnie, considerando che il 78% conosce già i dati legati ai costi elettrici.
Solo il 39% delle aziende pubblica in toto o in parte le proprie emissioni di “Scopo 3” (altre emissioni indirette), misurate o stimate. In molti casi esse corrispondono a quelle generate dai viaggi di lavoro, alla distribuzione esterna e logistica e alla supply chain.
Va precisato che i costi energetici pesano mediamente per il 20% sui costi totali delle società con ampie variazioni da caso a caso (da meno dell’1% nel settore finanziario a più del 70% nella generazione elettrica).

Il 50% delle aziende ha introdotto un programma per ridurre le proprie emissioni, con obiettivi molto differenziati, mentre solo il 39% ha stabilito obiettivi quantitativi.
Il 56% delle società che hanno risposto hanno costituito un Board Committee all’interno della compagnia sul climate change, anche se spesso hanno responsabilità relative alla sostenibilità o alla gestione dell’energia o del carbon market piuttosto che solo del climate change.
Circa il 39% ha istituito incentivi interni per stimolare gli impiegati al raggiungimento dei target aziendali sulle emissioni.

Riguardo alla comunicazione, il 33% pubblica i dati sull’annual report, il 39% mediante comunicazioni formali con gli azionisti, l’89% usa sistemi volontari come la pubblicazione del Corporate Social Responsibility Report.
Il 45% delle società ha dichiarato di aver collaborato, collaborare o avere intenzione di collaborare con istituzioni politiche per formulare strategie per contrastare i cambiamenti climatici.

Giacomelli, nelle sue considerazioni finali, ritiene che la pubblicazione on-line dei questionari rende possibile un dialogo più aperto e trasparente tra aziende, opinione pubblica e investitori. Ma è necessario migliorare la “qualità” e il livello di dettaglio dei dati forniti: l’esercizio stesso di predisposizione del questionario, oltre a fornire informazioni a pubblico e investitori, può costituire nel tempo un utile strumento di analisi interno per le società e determinare un aumento complessivo della consapevolezza e dell’attenzione sul tema. Inoltre, la comparazione periodica dei dati potrà fornire ulteriori elementi di analisi.

Su un piano globale, Silvie Giscaro ha riferito che CDP sta migliorando la propria banca dati: dal 1° febbraio 2010 vi sarà un Registro mondiale di prima classe delle emissioni di gas ad effetto serra, con un dettaglio dei dati fino a livello di singolo stabilimento.

Due aspetti del progetto CDP vanno infine evidenziati. Sulla catena di fornitura, il progetto lanciato con Wal-Mart a New York lo scorso anno, conta oggi più di 35 grandi aziende aderenti; aziende leader come Boeing, Procter and Gamble, HP e PepsiCo, che tramite CDP chiedono ai propri fornitori una specifica informazione sui cambiamenti climatici.
Inoltre, al progetto stanno partecipando anche grandi città degli Stati Uniti. Finora sono 29 e tra queste Las Vegas e New York stanno già fornendo i propri reporting sulle emissioni al Carbon Disclosure Project. Lo stesso Sindaco di New York, Bloomberg, ha assunto personalmente l’impegno a collaborare con CDP e adesso i dati sulle emissioni di CO2 rilevati attraverso il CDP sono disponibili non solo attraverso il sito del Carbon Disclosure Project, ma anche attraverso l’intero network di Bloomberg, consentendo così agli investitori di avere ulteriori strumenti per elaborare i dati sulle emissioni in rapporto ai relativi prezzi di mercato, ai prezzi dell’energia e a rilevanti proiezioni economiche.
Con il rafforzarsi dei sistemi di regolamentazione negli Stati Uniti e nel resto del mondo, questi dati saranno sempre più importanti.

16 febbraio 2009

 

 

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