Il successo dell’accordo sul clima e i limiti del compromesso

L'accordo sul clima di Bruxelles è importante per le future negoziazioni, per il carattere vincolante del target della quota di rinnovabili e della riduzione dei gas serra al 2020. Negativa è l'eccessiva difesa di alcuni comparti produttivi. L'editoriale di Gianni Silvestrini.

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Il più evidente risultato dell’accordo sul 2020 è che non sono stati toccati né gli obbiettivi europei né quelli nazionali e che è stato mantenuto il carattere vincolante per la quota di rinnovabili e per la riduzione dei gas climalteranti.
Il primo effetto di questo punto fermo riguarda il futuro del Pianeta. Seppure un po’ appannato dalla pressione di alcune lobby industriali e dall’azione priva di visione di pochi paesi fra cui il nostro, viene confermato il ruolo di apripista dell’Europa, decisivo per le trattative dell’ecodiplomazia del 2009.

Il secondo risultato riguarda le profonde modifiche della politica energetica che questo accordo imporrà, trasformazioni non ben comprese nel nostro Paese. Gli investimenti per portare dal 15% al 37% l’elettricità verde europea, considerando anche i necessari rafforzamenti della rete elettrica, comporteranno 500 miliardi € di investimenti. Non solo, a questi si dovranno aggiungere quelli destinati alla produzione di calore da rinnovabili e quelli per i biocarburanti.
Per un’Italia che aveva completamente fallito l’obbiettivo di elettricità verde (non vincolante) del 2010, il nuovo impegno implicherà una profonda e radicale rivisitazione degli incrementi della produzione da fonti rinnovabili, dei procedimenti autorizzativi e del ruolo di Regioni ed Enti locali, nonché un rilancio dell’attività di ricerca. Sarebbe meglio dire “dovrebbe implicare”, non essendo affatto scontato il cambio di rotta. Ma l’impegno europeo rappresenta uno straordinario strumento per stimolare e forzare politiche virtuose.

Nel merito dell’accordo, la riduzione o l’azzeramento delle quote di CO2 a pagamento per diversi settori industriali avrà un duplice effetto negativo. Da un lato le imprese coinvolte saranno meno stimolate a migliorare le proprie prestazioni, dall’altro comporterà una riduzione delle entrate che, per una quota pari almeno al 50%, sono destinate a finanziare politiche virtuose per il clima, a iniziare dall’efficienza energetica e dalle fonti rinnovabili.
L’attenzione ai rischi di delocalizzazione di industrie in assenza di un accordo mondiale è ragionevole, ma la difesa di alcuni segmenti produttivi sembra aver avuto una netta prevalenza sul successo dell’industria verde del futuro.
C’è infine la clausola della revisione degli impegni nel mese di marzo 2010 dopo il vertice di Copenaghen sulla quale il Governo italiano canta vittoria. In realtà le cose sembrano essere molto diverse. Nel 2010 si discuterà, infatti, se e come innalzare dal 20 al 30% la riduzione dei gas climalteranti in funzione dell’adesione degli altri paesi a impegni di contenimento delle emissioni.

La palla adesso passa oltre oceano. Le dichiarazioni in campagna elettorale di Obama sulla necessità per gli Usa di riconquistare una leadership nella battaglia per il clima e quelle di Kerry alla conferenza di Poznan, «Siamo fin da ora favorevoli a un accordo per nuove riduzioni vincolanti a Copenaghen», lasciano ben sperare. Non è nemmeno escluso che nei prossimi anni si assista a un clamoroso sorpasso del Vecchio Continente nelle politiche virtuose sul clima da parte degli Usa, galvanizzati dalla leadership di Obama. Anche se va osservato che l’Europa si impegna a ridurre del 20% le emissioni al 2020, mentre gli Stati Uniti auspicano di riportare le loro emissioni alla stessa data ai livelli del 1990.
 

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