Suspence a Bruxelles, veto italiano?

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Ancora aperta l'alternativa tra un'approvazione del pacchetto 2020 all'unanimità al Consiglio europeo e un clamoroso veto dell'Italia. Un'ipotesi poco probabile, ma minacciata dalle controverse posizioni del governo Berlusconi. L'editoriale di Gianni Silvestrini pubblicato sulla rivista QualEnergia.

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Suspence per gli impegni sul clima! Fino all’ultimo resta aperta l’alternativa tra un’approvazione all’unanimità al Consiglio europeo di metà dicembre del pacchetto 2020 e un clamoroso veto dell’Italia. Quest’ultima eventualità sembrerebbe la meno probabile, perché una rottura con la politica dell’Unione Europea sul clima non avrebbe sponde oltreoceano dopo la vittoria di Obama.
I continui attacchi di Berlusconi all’accordo sul 2020 lasciano però aperta la possibilità che si voglia alzare il livello dello scontro. Ma sarebbe veramente una posizione suicida da “uno contro tutti”. Infatti, sia Sarkozy, che vuole chiudere l’accordo prima della fine del suo mandato come presidente del Consiglio europeo, che il presidente della Commissione europea Barroso stanno facendo terra bruciata attorno alla posizione italiana negoziando con i Paesi dell’Est. Nello scenario che si giunga a un accordo si avranno due conseguenze. A livello internazionale, Europa e Stati Uniti faranno un lavoro di squadra in modo da definire nel 2009 a Copenaghen alla Cop15 un percorso di coinvolgimento di tutti i Paesi del Pianeta nel contenimento delle emissioni nel post-Kyoto. L’altra ricaduta sarà interna al continente europeo. Ogni singolo Paese dovrà infatti attrezzarsi seriamente per soddisfare gli obbiettivi legalmente vincolanti di riduzione dei gas climalteranti e di diffusione delle fonti rinnovabili al 2020.

Nel caso invece che il tavolo salti, il Governo italiano giustificherà la sua posizione con la necessità di verificare a Copenaghen le posizioni degli Usa per rivedere poi gli impegni europei. Ma vista la fermezza con cui la politica del clima è stata finora trattata dalla Commissione e dai principali Stati, un veto dell’Italia comporterebbe polemiche violentissime.
E’ opportuno fare qualche riflessione sulla bagarre che, comunque, si è già scatenata. L’Europa si è data per il 2020 l’obbiettivo di ridurre i gas serra del 20% rispetto al 1990. Per fare un paragone, Obama propone di portare le emissioni del 2020 sui livelli del 1990, un contributo dunque ben più modesto, motivato dal grave ritardo accumulato dagli Usa che hanno aumentato le emissioni del 19% rispetto al 1990.
All’Italia, come è noto, è stato attribuito un obbiettivo di riduzione dei gas climalteranti del 13% per i settori non assoggettati alla direttiva ET a partire dai valori del 2005. Se l’anno di partenza fosse stato il 1990, come richiesto dai paesi dell’Est, la riduzione sarebbe stata molto più incisiva, dell’ordine del 25%. Calcolare le emissioni dal 2005, anno in cui le emissioni erano aumentate del 12% rispetto al 1990, ha dunque avvantaggiato l’Italia. Considerando sia le riduzioni richieste al comparto delle industrie coinvolte nello schema ET che quelle previste per gli altri settori si può stimare in 499 Mt l’obbiettivo da raggiungere nel 2020. Questo valore risulta superiore del 3% rispetto all’obbiettivo di Kyoto. E questo mentre, sempre al 2020, il taglio medio previsto nella UE è del 14% rispetto ai livelli decisi a Kyoto.

Dunque la Commissione, dovendo accontentare tutti, ha trovato una soluzione che non penalizzasse troppo i Paesi meno virtuosi come l’Italia. Confindustria e Governo lamentano però che il costo per il nostro Paese rischia di essere più elevato rispetto agli altri. Ma questo dato deriva proprio dal ritardo che abbiamo accumulato. Se fossimo stati più incisivi nell’ultimo decennio, ci sarebbe stato attribuito un obbiettivo minore.
Queste prese di posizione fanno comunque riflettere sull’incapacità di larga parte della nostra industria di comprendere le straordinarie opportunità che si aprono negli scenari post-Kyoto. Perché il Governo tedesco si impegna a fare di più di quanto indicato dalla Commissione? Perché è masochista o perché ha intuito i vantaggi di politiche climatiche aggressive?

Le sabbie mobili del nucleare

Il polverone sui costi di riduzione delle emissioni e la contemporanea svolta nucleare del Governo impongono una riflessione di fondo sulle opportunità (mancate) del Paese e sulle prossime decisioni che rischiano di replicare scelte perdenti. Quando l’Italia uscì dal nucleare 20 anni fa, perse un’occasione storica per reindirizzare la propria politica energetica. Se avesse infatti puntato con determinazione sulle rinnovabili avrebbe creato nel corso degli anni Novanta un’industria importante che, ora, in pieno boom mondiale delle energie verdi, giocherebbe un ruolo di rilievo con esportazioni per molti miliardi di euro all’anno. Né si può dire che i tempi erano prematuri, perché proprio in quel periodo la California si lanciava nell’eolico e nel solare termodinamico, il Giappone e la Germania nel fotovoltaico, la Danimarca nell’eolico. Tutto ciò mentre il nucleare entrava in una fase di inarrestabile oblio. Un’occasione persa per la mancanza di visione strategica della nostra classe politica ed imprenditoriale.

Adesso ci troviamo in un altro momento critico, di svolta, se vogliamo di segno opposto. Infatti, a livello internazionale siamo di fronte a un rapido riorientamento degli investimenti verso le fonti rinnovabili, rafforzato in Europa dall’obbiettivo legalmente vincolante al 2020. Non si tratta perciò questa volta di fare da apripista, ma di ritagliarsi uno spazio nel processo di gigantesca trasformazione avviatosi. Questo cambiamento, in mancanza di rapida reattività del sistema, rischia di relegarci nel ruolo di Paese importatore di tecnologie verdi. Invece di lamentarsi, Governo e imprenditori dovrebbero comprendere come sfruttare l’obbiettivo del 2020 per creare una solida industria delle rinnovabili in grado, nel giro di 5-6 anni, di esportare tecnologie in quello che è diventato il mercato energetico con i più alti tassi di crescita. E invece?

Sottraiamo intelligenze, tempo e risorse per inseguire una soluzione in cui partiamo da zero, non esiste un consenso politico e non riusciremo mai a ricavare un reale spazio nella competizione internazionale. Senza contare che i nostri reattori, entrando in funzione tra il 2022 e il 2030, non potrebbero aiutarci a raggiungere gli obbiettivi legalmente vincolanti della fine del prossimo decennio – rinnovabili e riduzione dei gas climalteranti – rendendo altamente probabile il rischio di forti sanzioni per il nostro Paese. E se mai le centrali dovessero vedere la luce, l’elettricità nucleare dovrebbe confrontarsi con i costi delle rinnovabili fra 20, 30, 40, 50 anni che saranno altamente competitivi. Ecco perchè la scelta del Governo dal punto di vista della politica industriale rischia di essere un altro fallimento, distogliendo l’attenzione dalla vera sfida di creare una solida industria dell’efficienza e delle rinnovabili.
Venti anni fa alla chiusura del nucleare non è seguito un cambiamento strategico di politica energetica, facendoci perdere l’occasione storica di acquisire una leadership nelle tecnologie delle rinnovabili. Adesso che il treno delle rinnovabili è già partito a livello internazionale, l’avventurarsi nelle sabbie mobili del nucleare rischia di farci perdere l’occasione di un riaggancio verde e di provocare un’irreversibile marginalizzazione industriale.

Obama, green president?

Le aspettative nei confronti della nuova amministrazione americana sono enormi. Ma sono anche evidenti gli ostacoli, tra crisi finanziaria e guerre aperte, che si frappongono alla traduzione pratica degli ambiziosi obbiettivi ambientali lanciati nella campagna elettorale. Il rischio di una disillusione è possibile, ma non va trascurato l’enorme investimento emotivo legato all’elezione di Obama, che di per sé rappresenta un’importante carta da giocare nel cambiamento.
L’impatto della nuova amministrazione sarà importante sia negli Usa che in ambito internazionale. A livello interno nell’avviare politiche di sostegno alle rinnovabili, nell’introdurre un meccanismo per limitare le emissioni del tipo “cap and trade”, nel definire obbiettivi di efficienza energetica alle automobili.
Del resto, nei primi discorsi le sfide ambientali planetarie sono state ricordate come priorità. E nell’affrontare temi caldi come la crisi dell’industria dell’auto, Obama ha sottolineato come eventuali sostegni governativi saranno legati a una conversione verso la sostenibilità ambientale.

Tra i provvedimenti che potrebbero essere varati nei primi 100 giorni va segnalata la definizione di un obbligo a medio termine sulla quota di produzione elettrica da rinnovabili, sfruttando anche il fatto che 33 Stati hanno già introdotto dei “Renewable Portfolio Standards”. La norma servirebbe quindi a dare omogeneità, a generalizzare e a innalzare obbiettivi di una pratica già rodata. Ricordiamo che nel suo programma Obama parlava di passare dall’attuale 8% di elettricità rinnovabile al 10% entro il 2012 e al 25% entro il 2025.
Anche sull’introduzione di un sistema di Emissions trading, l’amministrazione Usa potrà giovarsi delle esperienze europee e del fatto che ben 24 Stati della federazione americana hanno già intrapreso questa strada. In questo campo inoltre, importanti segmenti dell’industria si sono già dichiarati favorevoli. Una legislazione in questo campo potrà far parte di un pacchetto sul clima che potrebbe vedere la luce tra la fine del 2009 e il 2010.
Sulla scala internazionale, il passaggio degli Usa dalla parte dei Paesi impegnati a trovare un accordo complessivo, sposta radicalmente gli equilibri favorendo il coinvolgimento dei Paesi in via di sviluppo. La posizione Usa dovrà però tenere conto degli equilibri interni. Non va sottovalutato infatti il ruolo del Senato nel ratificare gli accordi internazionali. Ricordiamo il voto unanime nel luglio del 1997 sulla proposta Byrd-Hagel che prevedeva la ratifica di un protocollo sul clima solo in presenza di impegni anche da parte dei Paesi in via di sviluppo.
La situazione è però molto cambiata. Alle ultime elezioni i Democratici hanno rafforzato le loro posizioni sia al Senato che al Congresso. Un ulteriore segnale dell’aria nuova viene dalla mancata rielezione di 7 dei 12 onorevoli etichettati come la “sporca dozzina” dalla League of Conservation Voters per le loro posizioni antiambientali.

E’ comunque chiaro che Obama dovrà rapportarsi con grande attenzione e carisma con i rappresentanti del Senato e del Congresso, sia per accelerare le politiche innovative interne che per procedere alla ratifica dei prossimi accordi internazionali. E’ prevedibile che il Presidente tenderà a sottolineare l’importanza della battaglia sul clima come strumento per aumentare la sicurezza energetica interna e per rilanciare l’economica degli Usa. Un primo segnale in questo senso viene dal pacchetto da 5-700 miliardi $ annunciato da Obama a fine novembre per sviluppare, tra l’altro, rinnovabili ed efficienza energetica e creare entro la fine del 2010 nuove industrie del settore e 2,5 milioni posti di lavoro.
Per finire, una riflessione sulla convenzione sul clima. A Copenaghen potrebbe essere siglato un accordo vincolante per il post Kyoto oppure solo definita solo una roadmap contenente gli elementi principali per un coinvolgimento successivo di tutti i Paesi. Considerando che i prossimi 10-15 anni saranno decisivi per evitare un esito catastrofico del cambiamento climatico, bisogna sperare che l’impegno forte di Usa ed Europa riesca a sbloccare la situazione. Vista la delicatezza della situazione, si comprende l’irresponsabilità di un’eventuale posizione di boicottaggio dell’Italia.

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