A Poznan, comunque – è opinione diffusa – non si deciderà granché: è l’ultimo incontro con la vecchia amministrazione Usa (che ieri ha ribadito la sua contrarietà a tagliare unilateralmente le emissioni) e tutti aspettano che scenda in campo il nuovo presidente, Barack Obama, per vedere quai sono le sue scelte prima di muoversi. Occorrerà dunque aspettare prima di sentire parlare di tagli di gas serra, mentre l’incontro – oltre a riportare il problema al centro del dibattito dei 192 paesi partecipanti – forse riuscirà a decidere qualcosa sui fondi da stanziare in favore dei paesi più poveri per mitigare gli effetti del global warming o sullo schema di compensazione per proteggere le foreste tropicali.
Quel che faranno gli Stati Uniti, d’altra parte, sarà fondamentale per il destino dell’accordo globale sul clima. Le aspettative nei confronti di Obama e delle sue promesse di impegno internazionale contro il global warming sono elevate e anche il suo programma in politica interna fa ben sperare: investimenti nelle rinnovabili (si parla di 15 miliardi di dollari ogni anno) e obiettivi coraggiosi nel taglio delle emissioni (riportarle ai livelli del 1990 entro il 2020 per poi ridurle dell’80% entro il 2050).
Gli Stati Uniti sono stati finora l’unico paese sviluppato a sottrarsi al protocollo di Kyoto: l’argomentazione di Bush era che l’accordo avrebbe penalizzato l’economia americana perché non prevedeva tagli delle emissioni a carico dei paesi in via di sviluppo e, in particolare, di Cina e India. Anche Obama si è pronunciato in favore di obiettivi obbligatori per i due giganti asiatici. Quello che faranno questi due paesi in effetti sarà determinate per il futuro del clima.
La proposta giapponese, fermamente avversata dal gruppo dei 77, ossia la coalizione dei paesi in via di sviluppo, è di dividere i Pvs in tre categorie: quelli maggiormente svantaggiati che più subirebbero i danni dei cambiamenti climatici, una fascia intermedia e, infine, i più forti economicamente, tra cui India e Cina, ai quali sarebbero imposti tagli delle emissioni.
I due paesi a Bali si erano detti d’accordo sulla necessità di ridurre le emissioni, ma avevano rifutato di vedersi imposti obblighi. L’India ha pubblicato il suo piano sul clima a giugno: grandi investimenti in efficienza e rinnovabili, ma nessun impegno sulla CO2 tranne quello che le emissioni procapite non dovranno mai superare quelle dei paesi ricchi. La Cina, che contende agli Usa il titolo di maggior emettitore mondiale, si è impegnata, non a tagliare le emissioni in assoluto, ma a ridurre l’intensità energetica (ossia il consumo di energia per unità di prodotto interno lordo) del 20%.
La buona notizia – sottolinea un articolo del World Resource Institute – è che ora la crisi economica potrebbe portare sia gli Stati Uniti che la Cina a ridurre le proprie emissioni, rendendo più facile il futuro accordo internazionale: nel programma di entrambi ci sono investimenti verdi per rilanciare l’economia. Se Obama ha dichiarato che stanzierà 150 miliardi di dollari per le tecnologie pulite, creando 5 milioni di posti di lavoro, Pechino ha appena presentato il suo pacchetto per rilanciare l’economia: dei 586 miliardi di dollari stanziati, la maggior parte sono destinati a settori a bassa intensità energetica come sanità ed educazione, 50 andranno per efficienza e fonti pulite, 85 per sviluppare i trasporti su ferro e 70 per una nuova rete elettrica, adatta ad accogliere l’energia da rinnovabili.
Forse la crisi renderà più verdi le economie dei due più grandi inquinatori mondiali, portandoli nella direzione giusta di un nuovo accordo sul clima. Accordo che, segnalano gli ultimi dati, è sempre più urgente: secondo un report delle Nazioni Unite le emissioni dei 40 paesi industrializzati dal 2000 al 2006 sono aumentate del 2,3%, anziché calare. La causa sta soprattutto nella ripresa economica dei paesi dell’ex blocco sovietico.
GM