Dalla crisi al New Deal sostenibile

  • 10 Ottobre 2008

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Crisi finanziaria e implicazioni su domanda e offerta di petrolio. La via d'uscita? Costruire nuove infrastrutture a basso contenuto di energia.

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Possiamo dire che la festa è finita e che forse non potremo più ragionare in termini di crescita come abbiamo fatto finora. Anche lo sviluppo impetuoso di molti paesi, come quelli emergenti, potrebbe aver raggiunto il capolinea. La leadership statunitense perderà il primato e si creeranno altre superpotenze mondiali che affiancheranno o si scontreranno con gli Usa, soprattutto per il possesso delle risorse energetiche e minerali. Abbiamo raggiunto la cima e da lì non c’è che la discesa. Sono un po’ questi i commenti che la crisi finanziaria mondiale sta facendo emergere.
Ma prima di parlare della “fine della crescita” vediamo cosa sta accadendo al prezzo del petrolio che oggi è oltre il 40% più basso rispetto a luglio quando toccò quasi i 150 $.

Ma come mai il prezzo sta crollando se l’offerta resta pressoché stabile, se non in diminuzione, e la domanda continua a crescere? Anche questo può essere un elemento che testimonia come nel mondo molte cose stiano cambiando, dice James Leigh su Energy Bulletin. Oltre alla vendita di futures sul petrolio per ottenere immediata liquidità, un motivo è d ricercare essenzialmente nel declino economico degli Stati Uniti: qui la domanda dei consumi sta calando e il prezzo del greggio, di pari passo, tende ad abbassarsi. Ricordiamo che gli Stati Uniti consumano oggi circa un quarto di tutto il petrolio mondiale ed importano il 15% della produzione mondiale di oro nero (13 milioni di barili di petrolio al giorno).
In teoria questa quota importata potrebbe in gran parte diventare disponibile sul mercato mondiale e a prezzi più bassi, permettendo ad altre nazioni di continuare la propria crescita, se non verranno significamene toccati dagli effetti della crisi finanziaria americana. Tutto questo potrebbe rallentare gli effetti del picco del petrolio che alcuni ritengono sia già alle spalle, ma queste dinamiche potrebbero portare anche a grandi spostamenti negli equilibri di potere mondiali. E l’accaparramento del petrolio sarà un fattore chiave. Bisognerà poi vedere se altre economie saranno in grado di compensare il declino americano. Un motivo di più per pensare ad una vera rivoluzione energetica basata su un nuovo modello di consumo, sull’efficienza energetica e le fonti rinnovabili. Ma alla luce di quello che sta accadendo il mondo occidentale sembra essere in gravissimo ritardo.

Quanti dei fautori della transizione energetica pulita, con un acuto senso di sconfitta e di frustrazione, pensano a cosa si poteva fare con quei 700 miliardi di dollari provenienti dalle casse statali americane per il salvataggio delle banche di investimento e degli istituti di credito? E a quei 50 miliardi di sterline che il governo britannico ha usato pochi giorni fa per comprare azioni di otto banche sull’orlo della bancarotta. Per non parlare dei 500 miliardi di dollari che gli Usa spendono annualmente in armamenti e per i conflitti bellici. Risorse che permetterebbero una sterzata in fatto di energia ed equità a livello globale se impiegate ad esempio nell’innovazione tecnologica e nelle rinnovabili. Tante contraddizioni, che insieme ad altre, vengono a galla. Ma i conti alla fine si pagano, anche se ancora non sappiamo chi penerà di più.

La crisi finanziaria americana in effetti è molto più profonda di quanto poteva sembrare nei primi giorni. I mutui sub-prime rappresentano piccoli numeri rispetto alla mole dei “derivati” largamente finanziati dal credito; hanno un valore di circa 530 trilioni di dollari su un indebitamento totale degli Usa di 637 trilioni di dollari! Roba da far sprofondare un paese per decenni. Ma è stata proprio l’insolvenza sui mutui che ha scatenato l’effetto domino (o meglio valanga) e la crescente sfiducia nel sistema creditizio.

La sensazione di precipizio fa riemergere il tema della crescita e fa dire a Richard Heinberg, sul sito del Post Carbon Institute, che la crescita è finita, è morta. E’ ciò causerà un “oceano di conseguenze”. Heinberg afferma, rivolgendosi a chi conosce che le questioni relative all’impatto dell’uomo sull’ambiente, che è ormai anche finito il tempo di litigare sul concetto di crescita e va cercata un’alternativa che non vada più a minacciare l’ecosistema. In fondo la chiave è e sarà la sostenibilità.

Il sito Petrolio, sempre lucidissimo su quanto avviene nel mercato del greggio e sulle implicazioni per l’economia, cita proprio un intervento dell’esperto americano che richiamava i governanti di tutto il mondo a vedere la crisi in una prospettiva di più lungo periodo: “il declino energetico sarà il fattore determinante nel destino della nostra civiltà, non una crisi monetaria o del debito. L’unica scelta è tra rivolgere tutti gli sforzi collettivi verso la costruzione di nuove infrastrutture per un futuro a bassa energia, oppure dirigerli nel vano tentativo di salvare le banche e perdendo quella che è forse l’ultima opportunità di salvare l’economia industriale”.

Scrive “Petrolio” si invoca una sorta di New Deal, come prospettava anche Lester Brown nella suo recente libro “Piano B 3.0“. Fa notare Petrolio, però, che a differenza di quanto affermano i politici, Richard Heinberg propone uno sforzo radicale per costruire nuove infrastrutture a basso impatto energetico e sulle risorse.
E a proposito di decision makers, mentre ci rincuora una visione di così ampio respiro arriva in redazione un comunicato del Ministro dell’Ambiente Prestigiacomo che fa sapere che “con la crisi in atto la discussione sul pacchetto clima-energia rischia di diventare grottesca”. E’ proprio vero che, come cantava Giorgio Gaber, “del nostro mondo occidentale non siamo che la periferia”.

LB

10 ottobre 2008

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