Confermato l’obiettivo di ridurre le emissioni del 20% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2020 (che diventerà il 30% se si raggiungerà un accordo sul clima più vasto a livello mondiale), la Commissione ha stabilito ulteriori traguardi: riduzione del 50% al 2035 e dal 60% all’80% al 2050.
Anche sul versante dell’ETS niente sconti: respinto l’emendamento che voleva che l’industria manufatturiera continuasse a ricevere gratis i permessi per emettere. Dal 2013 almeno il 15% delle quote saranno vendute all’asta dagli Stati nazionali agli operatori dei settori interessati, per arrivare gradualmente al 100% al 2020. Il produttori di elettricità invece dovranno acquistare tutte le quote già dal 2013, mentre un’ eccezione in senso opposto è prevista per i settori ad alta intensità energetica, che, per prevenire il rischio di delocalizzazioni, continueranno fino al 2020 a ricevere i permessi gratis. I soldi raccolti con la vendita dei permessi saranno usati per finanziare azioni di adattamento al global warming e di riduzione delle emissioni, cattura della CO2 compresa.
Il Parlamento europeo, che a dicembre discuterà in assemblea plenaria la proposta appena approvata, sembra dunque intenzionato a proseguire sulla strada della riduzione delle emissioni, senza farsi influenzare dalle preoccupazioni di quegli Stati membri che temono l’impatto sulle proprie economie nazionali delle misure per la riduzione delle emissioni. E, assieme alla Polonia, che dipende dal carbone per il 90% della sua produzione elettrica, e alla Germania, uno dei governi nazionali che più ha messo in dubbio gli obiettivi è stato quello italiano: il Ministro per le politiche comunitarie Andrea Ronchi è da qualche giorno in giro per l’Europa per cercare di convincere i partner Ue ad ammorbidire le misure, con l’appoggio della Confindustria.
Per il Governo italiano i costi per raggiungere gli obiettivi sarebbero eccessivi: secondo una stima del Ministero dell’Ambiente dai 23 ai 27 miliardi di euro all’anno, per Bruxelles 18 circa. Cifre, per inciso, che comunque non tengono conto degli effetti indiretti del pacchetto: da una parte l’aumento del costo per il sistema produttivo e il relativo impatto sull’inflazione, dall’altra il risparmio di combustibili fossili e l’indotto economico di rinnovabili ed efficienza energetica. Per non parlare dei danni economici che causerebbero gli effetti del global warming se non contrastato.
Intanto, mentre il nostro Governo vorrebbe frenare la lotta alle emissioni per difendere l’economia, ad incitare misure decise contro le emissioni sono proprio alcune tra le più grandi aziende europee: il Gruppo europeo dei dirigenti di impresa, che raggruppa i vertici di grandi società come Phillips, Shell, Tesco e Vodafone, alla vigilia del voto ha inviato ad ogni membro dell’Europarlamento una lettera in cui esprimeva il proprio favore nei confronti delle misure proposte nella quale scrive:
“Siamo dell’idea che i benefici di un intervento deciso e tempestivo sul cambiamento climatico siano superiori ai costi dell’inazione. Riconosciamo che le questioni legate alla competitività Europea e le preoccupazioni europee riguardo alla recessione economica globale influenzeranno il dibattito, ma siamo certi che l’adozione di un pacchetto legislativo deciso ed efficace alla fine avrà effetto positivo sulle imprese europee.” Proprio tutt’altra musica rispetto a quella suonata dalle nostre grandi imprese.
GM