Il nucleare, la scelta sbagliata

  • 7 Luglio 2008

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Estratto di un articolo di Gianni Silvestrini per il volume della collana Quaderni di AIEE "Prospettive per un'opzione nucleare in Italia: analisi e pareri a confronto" che verrà pubblicato a settembre e presentato ai primi di Ottobre.

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Introduzione
Lo scenario che con un certo grado di probabilità ci troveremo di fronte vedrà alti prezzi dell’energia e la necessità di dimezzare le emissioni di anidride carbonica entro una cinquantina di anni. Parrebbe dunque un contesto ideale per la diffusione del nucleare. Un’umanità messa alle corde da una situazione climatica sfuggita di mano ricorrerà a tutte le soluzioni possibili, quindi anche all’atomo su larga scala.
Ma quale è, in realtà, la strategia più efficace per affrontare queste sfide? Il nucleare si può inserire in questa battaglia o piuttosto rischia di rallentare gli sforzi complessivi?
Bisogna valutare il possibile tasso di diffusione del nucleare su scala mondiale, i tempi prevedibili, i costi correlati. Se altre opzioni consentissero una minore dipendenza dai combustibili fossili in tempi più rapidi ed a costi inferiori la corsa all’atomo risulterebbe distorcente rispetto alla emergenza climatica.
Per quanto riguarda poi la minaccia del picco del petrolio, il nucleare risulta ininfluente visto che sostituisce elettricità prodotta da gas o carbone.
Peraltro, una forte accelerazione del nucleare rafforzerebbe il modello energetico centralizzato del passato mettendo in difficoltà l’emergente sistema decentrato più leggero e più resiliente. Questa contraddizione è rafforzata dalla considerazione che i miliardi di persone non collegate alla rete elettrica riusciranno a soddisfare le proprie esigenze con tecnologie decentrate (fotovoltaico, biomasse, eolico), piuttosto che attraverso una improbabile e costosissima estensione delle reti elettriche.

Il tempo stringe…
Come ha sottolineato Richard Haass, presidente dell’autorevole Council on Foreign Relations, “Il rapido tasso di crescita del nucleare necessario per ottenere anche una modesta riduzione del riscaldamento globale comporterebbe un incremento dei costi di costruzione e creerebbe una scarsezza dei materiali, di personale qualificato e di controlli di sicurezza” (Haass, 2007). Nei confronti poi dei consumi petroliferi l’opzione nucleare, come si è detto, è inoltre impotente nel medio termine.
Un rilancio del nucleare aiuterebbe l’umanità nell’affrontare le sfide che l’aspettano se avvenisse nei prossimi 2-3 decenni. Come vedremo oltre, però, almeno fino al 2030 la quota di elettricità nucleare è destinata calare. Un forte impegno in questa direzione rischierebbe dunque di distogliere risorse preziose da destinare a scelte più efficaci.

Il contesto internazionale
Nel mondo il nucleare soddisfa il 15,1% della domanda elettrica e il 5,8% dei consumi di energia primaria. In termini percentuali, la quota del nucleare è in calo da diversi anni, malgrado il miglioramento delle rese delle centrali esistenti, a causa della progressiva chiusura dei vecchi impianti. In Europa il calo è particolarmente vistoso. Nel 1989 erano, infatti, 177 le centrali in funzione, mentre osa sono 146 unità, un numero destinato a ridursi ulteriormente nei prossimi anni.
Si parla molto di rinascimento nucleare, anche se la realtà presenta dinamiche diverse e per molti versi sorprendenti. La produzione mondiale nucleare del 2007 è calata dell’1,9% rispetta al 2006 a causa dell’arresto di alcuni centrali e della chiusura definitiva di 4 reattori.
Considerando le tendenze dei prossimi anni, in valori assoluti, le nuove installazioni solari ed eoliche supereranno nettamente l’incremento di potenza nucleare installata (Fig. 1).

In realtà, più che di rinascimento nucleare sarebbe opportuno parlare di rinascimento delle rinnovabili. Queste fonti, che fino a due secoli fa soddisfacevano i bisogni energetici del mondo per venire poi marginalizzate dai combustibili fossili, stanno vivendo ora una fase di significativo rilancio. Basti considerare che l’aumento della potenza verde in Europa tra il 2000 e il 2007 supera del 15% l’incremento netto delle centrali termoelettriche a combustibili fossili e nucleari (Fig. 2). Negli Usa il boom è partito in ritardo, ma sta esplodendo anche in quel paese. I 5,2 GW eolici installati lo scorso anno hanno rappresentato il 30% di tutta la nuova potenza elettrica collegata alla rete. E la prossima Amministrazione, chiunque vinca, non potrà che favorire l’accelerazione di questo trend.

Tornando al nucleare, per correttezza va detto che gli effetti di un eventuale rilancio si vedranno solo fra 15-20 anni e quindi i paragoni andranno fatti per quelle date.
L’incremento del nucleare sarà problematico fino alla diffusione dei reattori di quarta generazione che avverrà attorno al 2030-40. Appaiono invece più chiare le prospettive delle rinnovabili facilitate dalle riduzioni dei costi a fronte dell’incremento dei prezzi dei combustibili fossili.
La potenza installata è rimasta sostanzialmente stazionaria negli ultimi 20 anni (Fig. 3) Naturalmente sono in costruzione nuovi impianti, ma la situazione non è rosea.
Nel mese di dicembre 2007 erano aperti i cantieri di 34 centrali, 20 in meno rispetto a dieci anni fa (Fig. 4). Di questi, 12 progetti avanzano faticosamente da 20 anni e più.
Decisamente maggiore è il numero di annunci di nuovi reattori in giro del mondo che però spesso sono “wishful thinking”, specchietti per l’opinione pubblica che poi non si materializzano. E anche quando ci si trova di fronte ad una precisa volontà non sono rari rallentamenti e annullamenti.
Gli stessi cinesi avevano previsto nel 1985 20 GW per il 2000 ma ne hanno realizzato solo un decimo; hanno riproposto lo stesso obbiettivo al 2010, ma riusciranno ad avere al massimo la metà.
Analizzando le dichiarazioni dei responsabili di alcuni paesi, non c’è comunque dubbio che ci si trovi di fronte ad una ripresa d’interesse. Considerando però le centrali che si dovranno chiudere, pur considerando un allungamento della vita utile a 40-60 anni, il contributo addizionale sarà limitato. Tra il 2020 e il 2030 infatti dovranno essere mediamente dismesse centrali per una potenza di 15 GW/anno (Fig. 5). Secondo la IEA, la quota di elettricità nucleare dovrebbe ridursi nel 2030 dall’attuale 16% al 9-12% (Fig. 6). Se proiettiamo poi lo sguardo al 2050 si vede che per dimezzare le emissioni di CO2 il ruolo principale sarà affidato all’efficienza energetica, mentre il contributo delle rinnovabili sarà 3,5 volte superiore a quello del nucleare, tecnologia che contribuirebbe solo al 6% della riduzione delle emissioni al 2050 (Fig. 7).

Può essere però che nei decenni successivi, se i reattori di quarta generazione avranno superato i problemi che frenano le attuali tecnologie, la quota nucleare torni a crescere. Sempre che, come è altamente probabile, nella seconda metà del secolo le rinnovabili non riescano ad offrire soluzioni più economiche sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo. Insomma, semmai la quarta generazione verrà alla luce, sarà una sfida tra la coppia centralizzata nucleare-idrogeno e la rete diffusa solare-idrogeno.

I costi degli incidenti
Va ricordato un altro rischio, legato agli impatti di possibili incidenti. Vi sono due aspetti da considerare. Il più importante riguarda l’industria atomica nel suo complesso che in caso di grave incidente (Three Miles Island, Chernobyl) o di un attacco terroristico ad un impianto subirebbe un impatto devastante con il blocco di ordini per molti anni.
Il secondo riguarda invece i riflessi diretti dei malfunzionamenti degli impianti sulle società che li gestiscono.
In Svezia un incidente nella centrale di Forsmark il 25 luglio 2006 ha obbligato a chiudere 4 reattori con una mancata produzione di 2.3 TWh ed un danno di €150 M.
Più gravi gli effetti del terremoto che il 16 luglio 2007 ha danneggiato un reattore della centrale Kashiwazaki-Kariwa, il più grande complesso nucleare del mondo con 7 impianti per 8,212 MW, tutti bloccati dopo l’incidente. Le perdite della Tokyo Electric Power Company calcolate al mese di marzo 2008 sono state di 5,6 miliardi €, mentre le azioni della compagnia elettrica nel 2007 sono calate del 30%. Alla data in cui scriviamo, maggio 2008, ancora non si sa quando gli impianti riapriranno e quale sarà il costo delle riparazioni.

I costi della chiusura del ciclo
L’aspetto che rende più improponibile la scelta nucleare riguarda la mancata soluzione dello smaltimento delle scorie. A 50 anni dalla realizzazione della prima centrale non c’è un solo paese cha abbia realizzato un sito definitivo per le scorie ad alta radioattività, in grado di garantire cioè sicurezza per alcune decine di migliaia di anni.
Negli Stati Uniti si discute da più di 30 anni sulla qualificazione del sito di Yucca Mountain che dovrebbe sorgere a 100 miglia da Las Vegas. L’inizio dei lavori è stato costantemente rimandato, anche per la forte opposizione del governo del Nevada. Se i lavori effettivamente inizieranno, il materiale radioattivo potrebbe essere nel migliore dei casi essere trasferito con 4.330 trasporti ferroviari tra il 2021 e il 2045! I problemi da superare sono però molteplici, inclusi i rischi collegati con il trasporto del materiale radioattivo (Fig. 11). La situazione risulta particolarmente precaria per la riduzione di 100 milioni $ del budget del 2008 operato dal Congresso che ha comportato la cessazione del lavoro di 900 persone dal programma e per la posizione contraria di Obama.
Ma la chiusura del ciclo riguarda anche la messa in sicurezza e lo smantellamento delle centrali nucleari.
Le esperienze in Francia, Germania e Gran Bretagna su piccoli reattori (30-100 MW) hanno portato a costi molto elevati 1.000-6.000 €/kW. Per reattori più grandi si stimano valori inferiori a 500 $/kW.
In Gran Bretagna, la stima sul costo di smantellamento delle centrali esistenti, inclusi anche gli impianti di trattamento del combustibile, è arrivata a 73 miliardi £, il 20% in più rispetto alla valutazione effettuata nel 2005. Secondo il responsabile del programma, Ian Roxburgh, la cifra è destinata a crescere ulteriormente con l’approfondimento delle problematiche connesse.
Per la chiusura del ciclo nucleare in Italia sono stati, al momento, previsti 4,3 miliardi €. Resta ancora però totalmente indeterminato il destino delle 253 tonnellate di scorie in corso di trattamento in Francia (1.000 €/kg) che dovranno inderogabilmente tornare nel nostro paese entro il 2025.

Disponibilità uranio
Un tema generalmente sottovalutato riguarda la disponibilità di materiale fissile. In effetti negli anni scorsi si era in presenza di una sovrabbondanza di uranio anche per l’utilizzo del materiale proveniente dal programma di disarmo nucleare.
Questa situazione è destinata a cambiare e le difficoltà ad aprire nuove miniere stanno già facendo lievitare il prezzo spot, sestuplicato negli ultimi 5 anni (Fig. 12). Il prezzo è calato nella seconda parte del 2007 a causa del blocco dei reattori giapponesi di Kashiwazaki. Se dovesse continuare, questa corsa avrebbe ripercussioni anche sul costo finale dell’elettricità prodotta. Infatti, mentre in passato l’incidenza dell’uranio era solo del 5%, una decuplicazione del suo prezzo porterebbe ad un aumento del 45% del costo del kWh nucleare.
Ma quali sono le disponibilità di materiale fissile? A fronte di una domanda annuale di uranio di 67 kt, la produzione ammonta a 45 kt/a. La differenza viene coperta dalle scorte accumulate che si esauriranno entro il 2015. Ai livelli attuali, entro il 2035 sarebbero esaurite le riserve recuperabili a minor costo, mentre utilizzando anche le riserve estraibili ad un costo di 130 $/kg U la disponibilità si fermerebbe al 2070 (Fig. 13).
Si potrebbe aumentare il potenziale partendo da minerale a bassissima concentrazione di uranio. Ci sono però due limiti allo sfruttamento di queste risorse. Da un lato, l’energia necessaria per estrarre l’uranio aumenta in funzione della diluizione dell’uranio nel minerale. Inoltre, più bassa è la concentrazione di uranio, minore è la percentuale estraibile. La combinazione di questi due fattori definisce una soglia sotto la quale l’operazione di recupero non è fattibile perché richiede una quantità di energia superiore a quella dell’energia che il materiale radioattivo potrà fornire. Questa soglia è stimata in 100-200 grammi di uranio per tonnellata di minerale uranifero
C’è un ultimo aspetto legato alle disponibilità di materiale fissile e riguarda le emissioni di gas climalteranti legati alle lavorazioni necessarie. La produzione di elettricità, considerando tutto il ciclo di vita, implica un livello di emissioni che per quanto limitato non è irrilevante (7-22 gCO2eq/kWh secondo il governo inglese, 60-130 secondo altri studi (Ceedata, 2008) e si può stimare pari ad un quinto di quelle di un ciclo combinato. Quello che è certo è che, dovendo recuperare uranio da minerali sempre più poveri aumenterà il consumo di energia e le emissioni collegate. Questo significa che ad un certo punto le emissioni legate al ciclo di vita sarebbero superiori a quelle di una centrale convenzionale (Fig. 14).
Dunque, con le attuali tecnologie, la disponibilità di uranio rappresenta un collo di bottiglia destinato a bloccare ogni forte espansione del nucleare. Solo se si dimostreranno fattibili i reattori di quarta generazione, ancora allo stadio concettuale, che prevedono un migliore sfruttamento del combustibile nucleare questa limitazione si potrebbe superare.

Mantenere aperte tutte le opzioni tecnologiche
In una situazione energetica delicata e problematica come quella che ci aspetta nei prossimi decenni sembrerebbe sensato lavorare su più opzioni. Nucleare, efficienza e rinnovabili potrebbero convivere. Ma è proprio così? In realtà una scelta decisa sul fronte nucleare, che come abbiamo visto potrebbe dare i primi risultati entro 15-20 anni, implicherebbe inevitabilmente una minore attenzione verso le altre opzioni nelle attività di ricerca, dell’accesso al credito, nelle alleanze internazionali, nelle attività di formazione…
Non è un caso che Germania e Spagna, due paesi leader nello sviluppo delle energie verdi, abbiano perseguito con energia questa strada dopo la decisione di fuoriuscire progressivamente dall’atomo. Per converso la Francia nucleare, pur avendo un potenziale eolico elevatissimo, ha finora mantenuto un basso profilo nei confronti di questa tecnologia. Del resto, analizzando i paesi europei con maggior penetrazione dell’eolico si trovano ai primi posti nazioni che non hanno fatto la scelta nucleare o hanno deciso di abbandonare questa tecnologia (Fig. 15).
Forse la situazione più emblematica è data dalla Gran Bretagna, il paese con le maggiori risorse anemologiche europee, nel quale si confrontano due ipotesi difficilmente conciliabili di rilancio del nucleare e dell’eolico. Il governo ha infatti parlato di un obbiettivo di 33 GW eolici, prevalentemente offshore, un programma che cozza in termini di capitali necessari, di infrastrutture e di gestione dell’offerta elettrica con il contemporaneo rilancio del nucleare auspicato dallo stesso governo. La mancata modulabilità della produzione nucleare non consentirebbe infatti nelle ore con bassa domanda elettrica un pieno utilizzo dei parchi eolici.
La concentrazione dell’attenzione sul nucleare comporta anche una minore efficacia nell’uso delle risorse finanziarie. Riferendosi al contesto statunitense, Amory Lovins ha valutato: “Per ogni 0,1 $ speso per acquistare 1 kWh nucleare, si potrebbero acquistare 1,2-1,7 kWh eolici, 0,9-1,7 kWh elettrici abbinati a 2,4-8,9 kWh termici da un sistema a cogenerazione industriale o infine 1-10 kWh risparmiati con interventi di efficienza energetica.” (Lovins, 2006).

Italia: quanto nucleare e in che tempi
Per inquadrare il dibattito sul nucleare nel nostro paese è utile individuare l’arco temporale nel quale questa tecnologia potrebbe dare il suo contributo. Realisticamente, in presenza di un ampio consenso politico e sociale, la prima centrale potrebbe essere collegata in rete nel 2020 e gli impianti successivi entro il 2030. Parliamo dunque di un parco destinato a funzionare fino al 2080, considerando un tempo di vita di 50 anni.
Per quanto riguarda la potenza complessiva delle centrali da realizzare, è chiaro che uno sforzo per reintrodurre questa filiera nel parco elettrico nazionale ha un senso se si parla di un numero sufficiente a dare un contributo non marginale alla domanda elettrica, una percentuale del 20-30% tale da giustificare gli sforzi collaterali necessari per sostenere la filiera (formazione del personale, progettazione, coinvolgimento industriale nella realizzazione, gestione degli approvvigionamenti, smaltimento delle scorie..).
Quindi stiamo parlando di un parco nucleare di 10-15 GW, con investimenti di 50-75 miliardi €. Questo significa l’assorbimento di risorse finanziarie che potrebbero essere in competizione con quelle dedicabili alle rinnovabili.
La proposta avanzata dall’Edison nel marzo 2008 rientra sia per i tempi ipotizzati che per le dimensioni del programma, in questi parametri.

In che contesto si collocherebbe questa iniezione di nucleare?
Nell’ultimo decennio il parco elettrico italiano si è sostanzialmente rinnovato, prevalentemente con la realizzazione di centrali a ciclo combinato ad elevata efficienza. Nel medio termine proseguirà il potenziamento con centrali a gas, con impianti a carbone e con un forte contributo delle fonti rinnovabili. Una rigorosa politica di contenimento dei consumi comporterà inoltre un rallentamento della crescita della domanda in modo da soddisfare gli obbiettivi europei al 2020.
In sostanza, una produzione significativa di elettricità nucleare (80-120 TWh/a) dovrebbe competere, sia in fase di realizzazione che nella gestione, con le rinnovabili e con le centrali convenzionali ad alta efficienza.
Ma chi dovrebbe pagare il nucleare italiano? L’indebitamento dell’Enel ha superato a fine 2007 i 60 miliardi € a causa della recente acquisizione della spagnola Endesa ed è difficile pensare ad un’operazione finanziariamente così rischiosa. E’ probabile dunque che si tenti qualche forma di incentivazione statale cercando di aggirare le regole europee sulla concorrenza. Il coinvolgimento dei comparti energivori, sul modello finlandese, consentirebbe peraltro di coprire comunque solo una parte della produzione nucleare auspicata dal governo (25%).
Il sospetto quindi che si tenti di costruire in Italia un nuovo sistema protetto, tipo Cip6 atomico, è dunque legittimo.

Il contesto energetico sul lungo periodo
Ma esistono alternative serie e credibili nei decenni successivi al 2020? E quale può essere il ruolo delle fonti rinnovabili?
Eolico innovativo o geotermia profonda potrebbero riservare delle sorprese, ma l’unica tecnologia da cui ci si può aspettare contributi significativi sul lungo periodo è il solare. Un solare fotovoltaico casalingo abbinato ad un mix fotovoltaico/termodinamico sviluppato nel Sud del Mediterraneo.
In presenza di drastiche riduzioni dei prezzi, la produzione solare potrebbe infatti arrivare a coprire percentuali non marginali della domanda. Considerando il raggiungimento degli obbiettivi alla fine del prossimo decennio indicati nel Position paper del governo italiano (8.500 MW) e un tasso medio annuo di crescita della potenza installata del 20% tra il 2020 e il 2030, si arriverebbero a generare in Italia 70 TWh. Questo valore equivarrebbe alla produzione di 7 centrali nucleari da 1.300 MW, il numero di impianti che realisticamente si potrebbero costruire nel nostro paese entro il 2030. Nel decennio successivo, in presenza di costi solari decisamente competitivi, il contributo potrebbe salire notevolmente, anche in abbinamento alla generazione di idrogeno mediante elettrolisi dell’acqua, fatto questo che consentirebbe di supplire alla discontinuità della fonte solare.

Passando poi al contesto internazionale, vale la pena citare i risultati di uno studio commissionato dal Ministero dell’Ambiente tedesco, Trans-Mediterranean Interconnection for Concentrating Solar Power. A partire dal 2020 potrebbero essere trasferiti in Europa attraverso cavi ad alta tensione a corrente continua 60 TWh/a di elettricità solare per arrivare a 700 TWh/a nel 2050. Analogamente dai Balcani potrebbero attivarsi importazioni rilevanti di energia idroelettrica o eolica. Dunque nel periodo nel quale la produzione nucleare potrebbe dare il suo contributo in Italia, cioè nei decenni successivi al 2020, esistono serie possibilità di apporti da fonti rinnovabili di analoga o superiore entità.

Conclusioni
Questa panoramica mette in evidenza le problematiche ancora aperte che rendono poco opportuno un rilancio del nucleare con le attuali tecnologie. Uno sforzo deciso verso l’efficienza energetica, le rinnovabili e un miglioramento delle tecnologie convenzionali consentirebbero di affrontare con maggiore efficacia le sfide dei cambiamenti climatici e del picco della produzione di petrolio.
Uno degli aspetti che limitano le prospettive nel medio termine del nucleare è, si è visto, la sua difficoltà di competere in un mercato liberalizzato dell’energia. Si potrebbe dunque pensare di fare un passo indietro e creare un clima “protetto” per le centrali atomiche. In fondo, è quello che avviene con le fonti rinnovabili che sono incentivate ed hanno un dispacciamento assicurato.
Insomma, facciamo competere le alternative ai combustibili fossili ad armi pari. Ma, appunto, le condizioni di partenza non sono le stesse. Gli investimenti in ricerca e sviluppo nei paesi industrializzati sono stati costantemente sbilanciati nei confronti del nucleare. Analizzando il solo periodo 1992-2005 (un periodo di calo d’interesse per l’atomo) il nucleare ha utilizzato il quadruplo dei finanziamenti rispetto alle fonti rinnovabili (Fig. 16). Questi dati peraltro escludono gli investimenti di Russia e Cina totalmente sbilanciati sul nucleare. Cautelativamente si ritiene che i sussidi pubblici al nucleare siano stati dell’ordine di 500 miliardi $ (RMI, 2008).

Insomma, verrebbe da chiedersi quale sarebbe oggi lo sviluppo delle rinnovabili in presenza dello stesso livello di attenzione riservato al nucleare, malgrado le criticità relative alla sicurezza, ai rischi di proliferazione, alle scorie. E’ comunque interessante notare che sono proprio le rinnovabili a crescere in maniera impetuosa, molto maggiore rispetto al nucleare dall’Europa, agli Usa, alla Cina. Sta cioè emergendo un nuovo sistema energetico mondiale in cui il ruolo della produzione decentrata dell’energia, dalla cogenerazione alle fonti rinnovabili diventa sempre più importante (Fig. 17). Conviene dunque inserirsi con forza in questa onda crescente senza disperdere risorse.
Certo, le caratteristiche di costo, di utilizzo del materiale fissile, di gestione delle scorie, di sicurezza e di riduzione di rischi di proliferazione che ci si aspetta dai reattori di quarta generazione, consentirebbero di far giocare al nucleare un ruolo importante nella seconda parte del secolo. E’ perciò giusto che avanzi la ricerca in questa direzione, in parallelo allo studio di opzioni avanzate di utilizzo delle fonti rinnovabili. E che vinca il migliore.

Ma nei prossimi 10-20 anni lo sforzo dell’Italia, come del resto del mondo, deve essere concentrato verso le soluzioni realmente in grado di combattere il riscaldamento del pianeta e di gestire nella maniera meno traumatica possibile il passaggio del “peak oil”. Una accelerazione sul nucleare, con investimenti di oltre 70 miliardi €, distoglierebbe invece risorse indispensabili per le opzioni più efficaci e risulterebbe una opzione ideologica e perdente. Perché tutto fa ritenere che l’accoppiata rinnovabili più efficienza sarà economicamente più conveniente per il paese, esattamente come sarebbe più conveniente per l’insieme dei paesi industrializzati nelle elaborazioni dell’Agenzia internazionale dell’energia.

Gianni Silvestrini

7 luglio 2008

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