Climate change: dimensione e qualità degli investimenti

  • 15 Gennaio 2008

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Gli investimenti per la riduzione delle emissioni di gas serra dovranno essere  ingenti, ma sarebbero molto più gravosi i costi del non fare. Un articolo di Gianni Mattioli e Massimo Scalia.

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Perché la Cina è una grande acquirente di prodotti americani? si interrogava Giorgio Ruffolo nel suo breve saggio “Il nuovo squilibrio economico” (la Repubblica 1.11.2007). «Perché questo le consente di espandere la sua quota di esportazioni sul mercato americano nel breve periodo – si rispondeva – e di comprare, come sta già facendo, attività patrimoniali nel periodo più lungo. Ne ha già comprate per un valore corrispondente al 20% del debito totale americano.» «La Cina si compra l’America. Non è male come spettacolo. Ma è sicuramente male – aggiungeva Ruffolo – dal punto di vista sociale e, perché no, morale, che i due terzi del risparmio mondiale affluiscano al Paese più ricco che è diventato il più indebitato del Mondo. Il miliardo di contadini cinesi che non sono stati investiti dall’onda dello sviluppo possono aspettare con asiatica pazienza. Fino a quando?» Ruffolo indicava poi «prescrizioni e ricette» per affrontare l’attuale disordine e sregolatezza dei mercati, dal monito contro il «dolce sonno della politica economica europea» al suggerimento che l’Europa assuma iniziative che, approfittando della forza dell’euro, raccolgano dal mercato «il risparmio necessario a finanziare grandi investimenti comuni di sviluppo». Insomma, un’Europa all’altezza dei suoi padri fondatori, capace di prendere iniziative anche unilaterali di decisa svolta rispetto ai rischi di una «globalizzazione finanziaria incontrollata».

L’indicazione sui «grandi investimenti comuni di sviluppo» risuona come quella, più specifica ma analoga, che veniva dal Joint science academies’ statement: Energy Sustainability and Security (giugno 2006), che abbiamo più volte richiamato: «La sostenibilità e la sicurezza per l’energia richiederanno molte vigorose azioni a livello nazionale e un’intensa cooperazione internazionale. Queste azioni e questi passi da fare insieme dovranno necessariamente essere basati sul più ampio supporto pubblico, soprattutto nell’esplorare le strade per aumentare l’efficienza nell’uso dell’energia».
Una politica di investimenti comuni, colossali, per l’obiettivo dei tre 20% appare come la strada obbligata della rivoluzione energetica lanciata dalla Ue nel marzo scorso e, al tempo stesso, si profila come un’iniziativa forte per contrastare lo squilibrio economico e la globalizzazione finanziaria fuori controllo, denunciata da Ruffolo e da tanti altri, anche come male morale e sociale.

A proposito della dimensione degli investimenti. L’inazione a fronte dei cambiamenti climatici è stata stimata nel rapporto Stern tra il 5 e il 20% del Pil mondiale; e sull’onda della relazione dell’Ipcc a Valencia del novembre scorso e dell’attivismo del segretario dell’Onu, Ban Ki-Moon, il dibattito si è spostato sullo scenario “più favorevole” che corrisponde a 445 ppm di CO2 al 2050, garanti di un aumento di non più di due gradi centigradi di temperatura (calcolato però a partire dal 1988).
Non vogliamo ritornare qui sulla non condivisione di queste strette correlazioni con la temperatura, falsificabili in virtù della riconosciuta natura caotica del sistema climatico. E continuiamo a ritenere che lo scenario più favorevole, con il picco delle emissioni globali di CO2 al 2015, sarà anche il massimo che il realismo imperante concede, ma resta da folli.

Quello scenario corrisponde poi a investimenti che sottraggono ogni anno tra l’1,2 e l’1,9 per mille del Pil mondiale per una somma complessiva che rappresenterebbe il 5,5% del Pil al 2050; grosso modo, tenendo conto anche dei combustibili fossili risparmiati, cento miliardi di dollari all’anno per i prossimi quarant’anni. Con questa cautela la mitigazione è un pannicello caldo!

Un progetto come la solarizzazione fotovoltaica del 5 per mille del Sahara, in grado di fornire entro il 2030 elettricità pulita in esubero per tutta l’Africa e tutta la Ue, richiederebbe da solo quei cento miliardi all’anno per i primi anni, con un probabile incremento degli investimenti successivi. Basti pensare che il progetto per il trasporto idrogeno-elettricità dall’Algeria alla Ruhr stimava l’investimento richiesto in 144 miliardi di dollari, del 1997. Insomma, si può disegnare uno scenario, certo impegnativo e difficile, nel quale il cambiamento del modello energetico diviene il pilastro di una politica della sostenibilità e, nel contempo, attiva un gigantesco volano economico: dunque, un processo che, se così governato dalla consapevolezza della posta in gioco, oltre ai fondamentali effetti ambientali, può produrre un riequilibrio del mercato globale contro i suoi rischi e le sue patologie.

Gianni Mattioli e Massimo Scalia

articolo pubblicato nella rubrica “Mattioli E Scalia” della rivista QualEnergia (n.5/2007)

15 gennaio 2008

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