Nucleare sempre critico

  • 26 Luglio 2007

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Qualenergia.it ha intervistato il Professor Gianni Mattioli, docente di Fisica matematica e di Fisica presso l'Università di Roma "La Sapienza", sulle criticità degli impianti nucleari e sul futuro della tecnologia

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Qualenergia.it ha intervistato il Professor Gianni Mattioli, Docente di Fisica matematica e di Fisica presso l’Università di Roma “La Sapienza”, uno dei promotori del referendum del 1987 contro il nucleare in Italia, iniziando col chiedergli se dopo il recente incidente alla centrale di Kashiwazaki, in Giappone, l’opinione pubblica e la politica avranno una maggiore percezione delle criticità degli impianti nucleari.

gianni mattioli

Mattioli – Credo che questo fatto andrà rapidamente a far parte nel rumore di fondo che per tutti questi anni ha accompagnato la questione nucleare. Solo in Italia poi assume quei toni, causati da particolari eventi (un black out o un incidente), per cui molti commentatori chiedono un rilancio del nucleare. Però nel mondo questo rilancio proprio non c’è. Negli Stati Uniti continuano dal 1968, ben prima di Chernobyl, a non ordinare nessun nuovo impianto nucleare e non si può dire certo che oggi sia attivo un comparto industriale dell’elettromeccanica nei due continenti in cui si è maggiormente sviluppato il nucleare, Europa e Stati Uniti. In tutti questi anni si sono registrati soltanto due nuovi ordini: in Finlandia, in cui il progetto va avanti perché il governo si è assunto l’onere finanziario della chiusura del ciclo del combustibile e una recentissima dichiarazione di impegno della Francia per la realizzazione di un reattore di terza generazione, nel caso in cui gli Stati Uniti penseranno di riprendere in considerazione il nucleare nel 2025, allorché sarà realizzato un prototipo di quarta generazione.
Gli Stati Uniti guidano un consorzio di vari paesi che si chiama “Generation Four” che punta alla realizzazione di un prototipo, appunto nel 2025, se saranno risolti una serie di problemi oggi ben lungi dall’essere risolti. Anche su questo, il Premio Nobel Carlo Rubbia ci ricorda che “Generation Four” non è certo la soluzione, perché lascia invariato il problema dello smaltimento delle scorie. Nello scenario mondiale le cose oggi sembrano, purtroppo, ferme. Dico purtroppo perché io mi iscrissi alla Facoltà di Fisica proprio per l’entusiasmo di allora nell’energia nucleare. Oggi i problemi però non stati affatto risolti.

Il nucleare è dunque una tecnologia che deve essere ampiamente sussidiata dallo Stato.
E nonostante questo, il “Bill Act” di Bush che prevedeva grossi incentivi alle imprese private del nucleare, non ha visto queste rispondere alla chiamata. Encefalogramma piatto. Analogamente Blair in Gran Bretagna ha predisposto forti incentivi al nucleare, ma anche qui le imprese nucleari non hanno reagito. Di fronte agli attuali standard che le popolazioni chiedono, e si badi bene, non agli standard per la sicurezza dell’impianto nei casi di incidente, ma per i rilasci di radiazioni in condizioni di routine, la loro mitigazione risulta essere così costosa che nonostante gli incentivi le imprese non possono dare alcuna risposta positiva.
Va tenuto presente inoltre che il danno sanitario da radiazioni è un “danno senza soglia”: dosi comunque piccole di radioattività innescano processi di tumori, leucemie o effetti nelle generazioni successive, tanto che la definizione di “dose massima ammissibile” per i lavoratori e per le popolazioni fornita dalla Commissione internazionale per la radioprotezione, invece di essere “quella particolare dose al di sotto della quale non esiste rischio”, è curiosamente “quella dose cui sono associati effetti somatici, tumori e leucemie, che si considerano accettabili a fronte dei benefici economici associati a siffatte attività o radiazioni”.
Ma se allora parliamo di benefici economici, cerchiamo di capire anche quanto costa ammalarsi o quanto costa morire? Questo aspetto può far capire la disaffezione sempre più spinta delle popolazioni che chiedono mitigazioni che poi diventano esponenzialmente costose.

I fautori del nucleare parlano di un costo del kWh prodotto molto basso, ma spesso viene sottaciuta la rilevanza dei costi dell’intero ciclo di vita dell’impianto, dalla progettazione allo smantellamento della centrale, per finire con lo smaltimento delle scorie. E’ un costo che potremmo definire “irreale”?
E’ così. Nelle statistiche internazionali quando si legge che il costo del kWh nucleare è pari a 2,5 centesimi di euro, accanto c’è sempre l’avvertimento che tale costo è a bocca di centrale, cioè il puro costo del kWh, se non si tiene conto dell’intero ciclo del combustibile. La verità è che sarebbe difficile quantificarlo per il fatto che la chiusura del ciclo del combustibile non conosce oggi una standardizzazione che permetta di risalire ad un costo.
Ad esempio, la Francia, leader del settore nucleare, quest’anno aprirà un laboratorio a 500 metri di profondità proprio per studiare la possibilità di smaltimento dei rifiuti nucleari in zona a struttura argillosa, dopo la delusione delle strutture saline che hanno mostrato la possibilità di presenze di infiltrazione d’acqua, il nemico principale visto che corrode in tempi lunghissimi qualsiasi contenitore.
Quindi, come si vede, sono tuttora oggetto di studio sia lo smaltimento dei rifiuti sia lo smantellamento delle strutture di un impianto per la cattura neutronica che diventano in pratica dei grandi pezzi di scorie; ma ciò vale anche per una migliore e accettabile sicurezza degli impianti di trattamento del combustibile.
La Francia nel passato, si diceva, che aveva fatto dei lavoratori di questi impianti “viande à radiation”, carne da radiazione, perché tutto era giustificato dalle strategie nazionali visto che da quegli impianti, con il combustibile irraggiato, era possibile produrre plutonio di uso militare. Ma oggi, venendo meno tali necessità, anche questi impianti in Francia non vedono miglioramenti tecnologici e, pertanto, i costi non possono che diventare proibitivi ove dovessero essere accollati ai privati. Chi ha provato a mettere un numero al costo del kWh nucleare, come il Department of Energy americano, non è sceso al di sotto di 6,5÷7 centesimi di euro. Quindi mi viene da sorridere quando penso che oggi eolico, idroelettrico e geotermoelettrico hanno già un costo inferiore.

C’è da capire allora come dovrebbero essere indirizzate le risorse al nucleare sul capitolo ricerca e innovazione. Oggi ha senso, vista la scarsità delle risorse economiche, drenare grandi quantitativi di denaro verso la ricerca in questa tecnologia? Non c’è un forte sbilanciamento delle risorse a favore della ricerca sul nucleare a tutto svantaggio, ad esempio, delle fonti rinnovabili?
Attualmente il contributo dell’energia nucleare per il fabbisogno di elettricità a livello mondiale è molto modesto, intorno al 6,5%. Tuttavia, per coprire questo piccolo contributo, di uranio 235, l’isotopo fissile, ce n’è stimato per ancora 30-50 anni. Nel caso in cui, come affermano i sostenitori del nucleare che addirittura lo indicano come l’alternativa al petrolio in esaurimento, si volesse passare ad una quota più significativa, allora ci sbraneremmo sull’uranio né più né meno di come non facciamo ora sul petrolio.
Qualcuno afferma poi che di uranio diffuso nelle acque marine ce n’è molto. Peccato che uno studio delle Nazioni Unite abbia mostrato che per tirare fuori un’unità di energia dall’acqua marina, utilizzando uranio, bisogna spendere una volta e mezzo di più. Quindi, la prospettiva dell’uranio 235 è molto limitata. Se si passa all’altro isotopo, l’uranio 238, va detto che questo rappresenta il 99% del totale. L’uranio 238 non è fissile, ma per cattura neutronica si trasforma in plutonio che è un fissile; questa era la via scelta dai francesi con i reattori cosiddetti “veloci”, così definiti perché per questa tecnologia è importante non rallentare il neutrone. Però questa è una tecnologia che si giustifica ai fini della produzione di plutonio a scopo militare, ma il plutonio è un elemento fortemente tossico sia dal punto di vista chimico sia da quello della radioattività: un microgrammo (un milionesimo di grammo) è una dose letale. Questo è il motivo per cui oggi i francesi, indebolita la motivazione strategica, hanno chiuso questa filiera. Il rettore Superphoenix, che è un po’ il fiore all’occhiello della Francia in questo settore, non sembra avere futuro, anche se è preso in considerazione dalla stessa “Generation Four”.
Allora per rispondere alla domanda: vale la pena investire nella ricerca? Certo che la ricerca va continuata, perché resta il fatto che da un pugno di metallo scintillante, qual è l’uranio, si può tirare fuori tanta energia quanta quella prodotta da una montagna di carbone, ma intanto questo sarebbe possibile se si potesse utilizzare l’uranio 238, cosa che oggi non è praticabile.
Comunque la ricerca non dovrebbe richiedere giganteschi investimenti visto che si tratta ancora di una vera e propria ricerca di tipo fondamentale, cioè c’è bisogno di nuove idee di fisica per riuscire a trattare la radioattività. Dal 1896, quando Becquerel l’ha scoperta, noi non abbiamo fatto un solo passo in avanti in questo senso.
Ricerca sì, ma non ai danni di settori, come ad esempio il fotovoltaico in cui l’evoluzione tecnologica per il miglioramento del rendimento è molto interessante e ormai a portata di mano; lo stesso vale per l’eolico, le biomasse e per altre tecnologie come il solare termico. Razionalità vorrebbe di dedicare il massimo dell’innovazione tecnologica a questi settore che allo stesso tempo abbattono l’anidride carbonica, non ci espongono a rischio sanitario, a conflitti geo-politici e sono già tecnologicamente abbastanza maturi.

LB

20 luglio 2007

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