Un tetto per le emissioni

  • 20 Aprile 2006

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E' in libreria: "I meccanismi flessibili del Protocollo di Kyoto". L' introduzione di Gianni Silvestrini

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L’introduzione del meccanismo dell’Emissions Trading, cioè della definizione di un tetto massimo alle emissioni climalteranti per alcuni settori e della possibilità di raggiungere l’obiettivo anche attraverso l’acquisizione di crediti in modo da minimizzare i costi complessivi, rappresenta un significativo ampliamento del ventaglio degli strumenti nella battaglia contro il cambiamento del clima.

Dunque la Commissione Europea ha fatto bene a predisporre questa normativa, certamente complessa e innovativa, definendo una tempistica che consentisse un suo rodaggio a partire dal 2005 e poi un utilizzo incisivo nella fase successiva al 2007, cioè in coincidenza con il periodo di applicazione del Protocollo di Kyoto. E tutto ciò, prima di sapere se il trattato sarebbe diventato legalmente vincolante. Anzi, a prescindere da ciò, proprio per segnalare il forte impegno dell’Europa sul fronte del clima.
L’incertezza sulla ratifica da parte della Russia ha però indotto più di un governo a considerare la Direttiva non tanto come uno strumento per minimizzare i costi di riduzione delle emissioni, ma come un adempimento da assolvere cercando di limitare gli “impatti” sulle imprese coinvolte.

In mancanza dell’entrata in vigore del Protocollo questa interpretazione “difensiva” poteva avere delle motivazioni (proteggere le industrie nazionali rispetto ad extracosti energetici), motivazioni che però hanno perso larga parte del loro significato nel momento in cui le riduzioni sono diventate vincolanti per larga parte dei paesi industrializzati.
E’ chiaro infatti che un impegno poco incisivo richiesto ai comparti compresi nella Direttiva (che rappresentano il 45% delle emissioni complessive nei vari paesi) implica uno sforzo maggiore negli altri settori e/o un ricorso pesante ai meccanismi flessibili per acquisire all’estero i crediti mancanti. Ed è altrettanto evidente che, per rispettare i parametri di Kyoto, i paesi che avranno optato per un utilizzo “debole” della Direttiva sopporteranno uno costo complessivo maggiore, scaricato sulla fiscalità generale. Come è stato dimostrato infatti lo strumento dello scambio delle emissioni consente di ridurre fortemente il costo delle riduzioni.

Gran Bretagna: una buona partenza
La Gran Bretagna, anticipando i tempi, aveva lanciato tra il 2002 e il primo esperimento mondiale di Emissions trading di gas climalteranti, coinvolgendo 32 imprese che hanno concordato specifici obiettivi di riduzione, usufruendo di un finanziamenti per 43 milioni di sterline/anno.
Questo programma ha fatto acquisire agli inglesi un prezioso know how nell’intermediazione finanziaria, nel brokeraggio e nella predisposizione di registri delle emissioni, consentendo ad un nutrito numero di società britanniche di fornire i propri servizi sul mercato europeo. Un esempio di politica ambientale lungimirante.
Ma i risultati dell’esperienza britannica sono stati positivi anche per le imprese coinvolte nello schema di ET nazionale. Nel primo anno si dovevano ridurre emissioni climalteranti per 4,6 Mt e nel secondo per 5,2 Mt. In realtà le riduzioni sono andate oltre l’obiettivo indicato per ben 7,5 Mt, vista la convenienza degli interventi di riduzione attivati.
Non stupisce il fatto che nella definizione del Piano Nazionale di Allocazione previsto dalla Direttiva il governo inglese abbia scelto un profilo alto proponendo inizialmente una riduzione per il 2007 del 16,3% rispetto al 1990.

Successivamente, avendo visto che la maggioranza degli altri Piani erano caratterizzati da obiettivi molto modesti, la Gran Bretagna ha presentato alla Commissione un Piano per 736 Mt per il periodo 2005-7 (21 Mt in più di quelli inizialmente previsti), tentando successivamente di alzare a 756 Mt il tetto delle emissioni consentite alle proprie industrie. Questa ultima richiesta è stata bocciata dalla Commssione, ma la Corte di Giustizia ha accettato un ricorso predisposto dal governo inglese contro la decisione di Bruxelles. Fatto quest’ultimo che rischia di indebolire tutta l’impalcatura della Direttiva se altri paesi decidessero di seguire la stessa strada per irvedere le proprie quote.

Il Piano Nazionale delle Emissioni italiano
Il nostro paese si è mosso molto in ritardo, con un atteggiamento quasi ostile nei confronti della Direttiva 2003/87/CE. Secondo il Governo, questa era figlia della decisione unilaterale dell’Europa di proseguire sull’impegno di Kyoto malgrado la scelta degli Usa di non ratificare il protocollo. Ma essendo impossibile non recepire la Direttiva, si è tentato di annacquarne l’impostazione.
Così, la proposta di Piano Nazionale di Allocazione (PNA) presentata il 22 luglio 2004 prevedeva un livello di emissioni al 2007 dell’8% più elevato rispetto al 2000 e del 15% più alto rispetto al 1990.

Si trattava evidentemente di numeri non coerenti con lo spirito della Direttiva che recita: “la quantità totale delle quote da assegnare per il periodo interessato è coerente con l’obbligo degli Stati membri di limitare le proprie emissioni ai sensi della decisione 2002/358/CE e del Protocollo di Kyoto”.
Successivamente, il 24 febbraio 2005 è stata presentata una integrazione alla proposta di PNA che modifica il precedente schema, introducendo alcune assunzioni che, se possibile, hanno peggiorato la prima versione.
Per giustificare la “generosa” proposta italiana, sono state addotte diverse argomentazioni, quali:
l’elevata efficienza del sistema energetico italiano, l’assenza del nucleare, la modesta diffusione di centrali a carbone, la necessità di tener conto della ristrutturazione in atto del sistema elettrico, l’elevata quota di elettricità importata, i prezzi alti dell’energia elettrica prodotta.
Cerchiamo di capire la fondatezza di alcuni di questi elementi.

L’efficienza energetica dell’Italia
L’efficienza energetica è stata una bandiera del sistema italiano per lungo tempo. Purtroppo negli ultimi 15 anni la nostra virtuosità è andata però declinando.
Analizzando in particolare l’intensità energetica del settore industriale tra il 1990 e il 1999 si nota come essa sia migliorata dello 0,2%/anno contro una media europea 10 volte superiore. Se si eliminano le differenze delle strutture industriali dei paesi europei, l’intensità italiana risultava nel 2000 pari a 146 tep/M€, un valore migliore della media europea (188 tep/M€), ma peggiore di paesi come la Gran Bretagna, la Germania, la Danimarca. Considerando più in dettaglio le caratteristiche dei settori industriali coinvolti nella Direttiva, si nota come i comparti dei materiali da costruzione, del vetro e della carta abbiano peggiorato nel corso degli anni 90 i propri consumi specifici. Dunque, in questi settori è pensabile un recupero di efficienza.

Una valutazione più attenta va riservata al settore elettrico, responsabile di più della metà delle emissioni sottoposte ai vincoli della Direttiva.
E’ importante innanzitutto valutare la dinamica della domanda, per vedere se si è un considerato un miglioramento complessivo dell’efficienza dell’uso dell’energia elettrica.
Nel periodo 2005-2010 si ipotizza un tasso di crescita dell’energia elettrica pari poco meno al 3% annuo, cioè circa il doppio di quello registrato nel periodo 2000-2004. I dati del 2005 segnalano una crescita ancora inferiore, riflesso dello stato di recessione dell’economia. Anche in presenza di un rilancio dell’economia, pare difficile che si raggiungano i valori indicati nel PNA.

Va inoltre rilevato che non si è considerato l’effetto dei Decreti sull’efficienza energetica del luglio 2004 che dovrebbero comportare una riduzione dei consumi elettrici di circa 7-10 TWh/a nel periodo 2010-12.
Considerando un tasso annuo di crescita più ragionevole (+2,4%) e l’effetto dei provvedimenti sull’efficienza energetica, il consumo interno lordo al 2010 sarebbe inferiore di 25-27 TWh rispetto alle stime del PNA.

Nucleare e carbone
La sottolineatura della mancanza del nucleare pare in realtà un autogol per l’Italia. E’ infatti evidente che in presenza di centrali atomiche in funzione, la possibilità di ridurre i gas climalteranti sarebbe inferiore. E’ proprio questa la ragione per cui alla Francia è stato concesso nell’ambito del “burden sharing” europeo di non ridurre le emissioni tra il 1990 e il 2008-12.
Al contrario la bassa percentuale del carbone ci penalizza perché non possiamo utilizzare la “fuga” da questo combustibile che altri paesi stanno predisponendo. E’ però vero che l’Italia è appesantita da un ampio parco di centrali termoelettriche ad olio combustibile con rendimenti limitati (38%), la cui conversione a ciclo combinato, se non presenta i vantaggi legati all’eliminazione del carbone, consente comunque decise riduzioni delle emissioni di CO2 (330 g per ogni kWh convertito).

La bassa percentuale del carbone penalizza l’Italia perché non possiamo utilizzare la “fuga” da questo combustibile che altri paesi stanno predisponendo. E’ però vero che l’Italia è appesantita da un ampio parco di centrali termoelettriche ad olio combustibile con rendimenti limitati (38%), la cui conversione a ciclo combinato, se non presenta gli stessi vantaggi legati all’eliminazione del carbone, consente comunque decise riduzioni delle emissioni di CO2 (330 g per ogni kWh convertito).

Sul carbone occorre poi soffermarsi perché rappresenta uno degli aspetti più problematici del Piano Nazionale di Allocazione. Il PNA prevede una crescita del ricorso a questo combustibile dal 10% del 2000 al 15% nel 2010. Se da un lato questo valore è inferiore della metà rispetto alla media europea, d’altra parte il trend si presenta in controtendenza rispetto alle scelte di molti altri paesi. Per esempio la Gran Bretagna, che ha già visto un forte calo nell’impiego del carbone, ne prevede un ulteriore dimezzamento, con il passaggio dal 32% della generazione nel 2005 al 16% nel 2020. Anche la Spagna ha lanciato un deciso segnale nella allocazione dei crediti, scoraggiando l’utilizzo delle centrali a carbone. Negli obiettivi del Governo spagnolo il carbone dovrebbe calare dal 36% nel 2002 al 12% nel 2011.

Da noi invece succede l’opposto. Anzi, secondo gli annunci di alcuni operatori la percentuale della produzione elettrica da carbone prevista dal PNA italiano potrebbe essere superata, anche se pare ottimistica una crescita così ampia in tempi brevi.
Nelle scelte che governo e settori coinvolti devono assumere vanno considerati sia le ricadute a breve termine che gli scenari sul lungo periodo. In questo senso è chiaro che la realizzazione di centrali a carbone che saranno attive fino al 2040-2050, proietta un preoccupante fardello sul paese. Ogni impianto a carbone da 1.000 MW comporta l’emissione annua di 3 MtCO2 in più rispetto ai cicli combinati. In 30 anni sono 90 Mt che, ad un prezzo di 20 €/t, rappresentano un potenziale esborso di 1,8 miliardi €. Se poi, come è probabile, sul lungo termine il costo della CO2 dovesse salire, questa cifra potrebbe crescere ulteriormente o indurre gli operatori a passare ad impianti a ciclo combinato.
Dunque, se pure nel periodo di Kyoto la scelta della riconversione a carbone di alcune centrali potrebbe portare ad una riduzione dei costi bilanciato dalle spese per l’acquisto di crediti di emissione (che probabilmente ricadranno sulla fiscalità generale), sul lungo periodo la variabile climatica è destinata a pesare in maniera sempre più decisa sui conti nazionali. Si tratta cioè di un’eredità avvelenata.

Il taglio imposto dalla Commissione Europea
Nel mese di maggio la Commisisone Europea ha chiesto di ridurre del 9% le emissioni dei comparti coinvolti rispetto alle quote inizialmente proposte dal Governo italiano. Lo stesso trattamento, del resto, era stato del resto riservato dall’UE anche ad altri paesi nel tentativo di dare rigore ad uno strumento che rischiava di essere totalmente depotenziato. Gli obiettivi indicati da diversi governi rappresentavano infatti l’andamento “Business as usual” delle emissioni nel tentativo di non far gravare i costi sulle proprie industrie, per lo meno nella prima fase pre-Kyoto.
Il fatto di avere perso tempo (il PNA italiano è stato il penultimo ad essere approvato) comporterà un aggravio dei costi per il nostro sistema. I valori della CO2 sul mercato europeo viaggiano sui 27 €/t contro i 7-8 €/t che si registravano a gennaio e febbraio.
Al nostro paese è stato chiesto di portare il tetto medio delle emissioni di CO2 da 255,5 Mt/a a 232,5 Mt/a. Malgrado la versione finale del PNA abbia abbassato il tetto a 223 Mt/a, nel 2007 le emissioni dei comparti coinvolti nella Direttiva saranno comunque superiori di oltre il 6% rispetto ai valori del 1990, in controtendenza rispetto all’obiettivo di Kyoto per l’Italia di –6,5%.

Resta comunque il fatto che le industrie italiane coinvolte nello schema dello scambio delle emissioni conosceranno il valore definitivo delle quote di anidride carbonica associate a ogni impianto, e quindi i limiti da rispettare per il 2005, solo alla fine dell’anno. Una situazione paradossale e imbarazzante per il governo. Infatti, pur essendo poco impegnativi gli obiettivi assegnati alle imprese, resta il fatto che in alcune situazioni si dovrà ricorrere alla acquisizione di crediti di carbonio (alcuni milioni di tonnellate). Questa necessità deriva anche dal fatto che l’assegnazione arriverà fuori tempo massimo, impedendo agli operatori di definire opportune strategie per rispettare gli obblighi derivanti dalla Direttiva ET.

Se questo acquisto dovesse avvenire sul mercato europeo comporterebbe un esborso triplo rispetto alle quotazioni dell’inizio dell’anno. La soluzione proposta dal governo, quella di fare accedere le imprese in difetto ai crediti molto più convenienti acquisibili l’Italian Carbon Fund (5-6 $/t CO2) finanziato dal Ministero dell’Ambiente, non pare offrire reali alternative. Innanzitutto è improbabile che per il 2005 ci siano effettivamente le quantità di carbonio necessarie alle imprese italiane, considerato che l’intero ammontare delle riduzioni dei 26 progetti accreditati nell’ambito dei CDM (Clean Development Mechanisms) su scala mondiale corrisponde a 7,5 Mt CO2e/a, meno cioè di quanto prevedibilmente servirà alla sola Itala. Inoltre questa ipotesi potrebbe essere considerata alla stregua di un aiuto di Stato. Neelie Kroes, commissario Ue alla Concorrenza, ha dichiarato che la situazione verrà considerata con attenzione.

L’esito più probabile dunque è l’apertura di un notevole contenzioso tra le aziende coinvolte ed il governo, con il risultato di un danno complessivo alle strategie per Kyoto perchè l’attenzione dei media verrà puntata soprattutto sul rischio di forti esborsi verso l’estero, senza che lo schema della Direttiva abbia indotto reali interventi tecnologici o gestionali nel nostro paese.

La sfida dopo il 2007
La partita più seria si giocherà comunque con la definizione delle quote di riduzione per il periodo 2008-10, coincidente con gli anni validi per il protocollo di Kyoto. L’eventuale entrata in funzione di nuove centrali a carbone dopo il 2007 e l’applicazione seria della Direttiva e del Protocollo di Kyoto potranno comportare infatti significativi impatti economici. Del resto, non fissare obiettivi coerenti con gli impegni di Kyoto implicherà automaticamente il trasferimento sulla collettività dell’onere di acquisire quote di gas climalteranti all’estero, cioè nuove tasse.

Insomma la partita è delicata. Non aver avviato per tempo una seria politica per ridurre le emissioni ci taglia fuori dalla possibilità di essere tra i “winners”, coloro che guadagneranno cedendo crediti. Occorre ora uno sforzo straordinario per riposizionarsi correttamente puntando sulle strategie di riduzione in grado di dare anche benefici economici, come quelle legate all’aumento dell’efficienza energetica.

Più in generale, le istituzioni e le imprese devono comprendere che non è possibile affrontare la grande sfida climatica agendo furbescamente per ridurre i propri impegni e in generale adottando una strategia difensiva. I nodi vengono sempre al pettine. Occorre invece inserirsi con coraggio nella rivoluzione energetica in atto per posizionare vantaggiosamente i comparti industriali italiani nella competizione sui mercati internazionali e cogliere le nuove opportunità che si presentano. Come hanno fatto molte industrie straniere.

Gianni Silvestrini
Direttore scientifico del Kyoto Club

I meccanismi flessibili del Protocollo di Kyoto, a cura di Michele Villa
Pagine 184 – € 14 – Ulrico Hoepli Editore (ISBN 88-203-3446-1)

20 aprile 2006

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