Il dinosauro nucleare

  • 19 Aprile 2006

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L'energia dall'atomo è stato un flop. In primo luogo industriale. Ad affermarlo sono i dati Iea

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La storia del nucleare ad oggi è quella di un disastro industriale che ha divorato cifre colossali, messo in crisi la fiducia dei cittadini e deluso le speranze di chi ci aveva creduto.
All’inizio degli anni settanta si ipotizzava uno sviluppo impetuoso di questa tecnologia. Le previsioni fatte allora sulla potenza che si sarebbe raggiunta a fine secolo sono risultate da due a dieci volte più elevate della realtà.
Incidenti e costi elevati hanno comportato il blocco della maggior parte dei programmi, il fallimento di molte compagnie, l’uscita completa dal nucleare di alcuni paesi.
E questo malgrado siano state investite enormi quantità di denaro. Solo per la ricerca, gli Usa avevano speso 60 miliardi $ fino al 1993. Estendendo l’analisi a tutti i paesi della IEA dal 1970 ad oggi, si vede come più della metà degli investimenti per l’energia sia stata assorbita dal nucleare da fissione (senza contare quindi le spese per la fusione). Includendo poi Russia, Cina e India la bilancia penderebbe ulteriormente a favore del nucleare.
Sul fronte della produzione, grazie ai migliori fattori di utilizzo degli impianti esistenti, l’elettricità nucleare si è accresciuta del 32% tra il 1990 e il 2003, ma l’incremento della potenza atomica negli ultimi due decenni è stato minimo.
Per quanto riguarda il futuro, le previsioni che si fanno non sono brillanti. Secondo la Iea la quota della elettricità da fonte nucleare su scala mondiale dovrebbe scendere dal 17% al 9% nel 2030 (World Energy Outlook, 2004).
Se però fino a qualche anno fa l’immagine più calzante della filiera nucleare era quella di un dinosauro morente, da più parti ora c’è chi propone un suo rilancio.
Operazione più facile da proclamare che da attuare. Ne sa qualcosa Bush, che dopo più di quattro anni di presidenza non è riuscito a convincere un solo operatore ad avviare la costruzione di una centrale atomica ed interrompere così un vuoto che negli Usa dura da più di 25 anni. Il motivo, si sa, è quello economico. Sono il mercato e la concorrenza ad avere azzoppato il nucleare. Quale impresa elettrica, o istituto finanziario è disposto a puntare su questa tecnologia quando ha a disposizione soluzioni ben più economiche e meno rischiose?
Eppure il fantasma nucleare sembra oggi rispuntare. Richiamato in Italia, in modo pretestuoso, parlando di bollette elettriche elevate o di black-out. Altrove evocato grazie all’alibi/preoccupazione (a seconda dei personaggi) della minaccia del cambiamento del clima e della possibilità che la domanda di petrolio possa superare l’offerta.
Siccome il riscaldamento del pianeta e la disponibilità di greggio sono variabili destinate ad influenzare pesantemente le strategie energetiche, vediamo quali soluzioni saranno disponibili e se il nucleare potrà dare un contributo.

I problemi non risolti
I due aspetti critici più preoccupanti della filiera atomica riguardano lo smaltimento delle scorie e il rischio di proliferazione di armi nucleari.
E’ paradossale che a più di mezzo secolo dall’inizio dell’impiego di questa tecnologia, ancora non si sia trovata in nessun paese una soluzione definitiva per le scorie ad alta radioattività.
La storia dei tentativi per identificare un sito per lo smaltimento dei rifiuti nucleari è costellata di fallimenti e continui rinvii in tutti i paesi del mondo. Prendiamo il caso degli Usa, dove da oltre un ventennio si discute di un deposito centralizzato a Yucca Mountain nel Nevada, un progetto del costo di 40-50 miliardi di dollari la cui realizzazione continua però a slittare (come dimostrano le polemiche di queste ultime settimane).
Un altro aspetto che mette a nudo la fragilità della scelta nucleare riguarda la possibilità di attentati a centrali o al ciclo del combustibile. Negli Usa dopo l’11 settembre sono state aumentate del 60% le forze di vigilanza alle centrali (attualmente 8000 agenti difendono gli impianti).
Il rischio di proliferazione atomica infine è sotto gli occhi di tutti, come dimostrano le vicende di Nord Corea, Iran, India, Pakistan… e rappresenta un fortissimo handicap alla diffusione di questa tecnologia.
Non va poi trascurato l’impatto che potrebbe avere un incidente in qualsiasi parte del mondo sull’intera filiera nucleare. Il fatto che investimenti colossali possano essere messi a rischio da un’emergenza mette in evidenza la fragilità di questa opzione.

La variabile economica
Molte delle più recenti stime economiche rispetto alla futura generazione di energia elettrica evidenziano il maggior costo dell’elettricità nucleare rispetto alle soluzioni alternative. Proprio a causa dei maggiori costi, il Congresso americano sta discutendo una norma per incentivare l’elettricità da nuove centrali nucleari con un contributo pari a 1,85 centesimi $ per kWh. E’ interessante sottolineare come l’incentivo proposto sia superiore a quello (1,5 c/kWh) esistente per l’eolico e la biomassa.
Certo, malgrado gli alti costi, ci sono comunque programmi per nuove centrali.
La recente decisione della Finlandia in questo senso ha destato molto interesse. Il contesto appare però particolare, per la presenza di una garanzia di acquisto dell’elettricità per 40 anni e per la probabile offerta di tecnologie sotto costo da parte di un’industria disperatamente bisognosa di uscire dall’angolo. Framatome, l’impresa che ha vinto il contratto, intende costruire un impianto dello stesso tipo (EPR) in Francia, con un costo del 25% più alto di quello finlandese.
Per paesi come la Cina affamati di energia e senza problemi (finora) di gestione del consenso, la scelta di realizzare nuove centrali risponde invece alla necessità di soddisfare una domanda impetuosa a qualunque costo.
L’aspetto economico appare più problematico in un mercato elettrico liberalizzato.
E’ significativo come alla conferenza del 2003 della World Nuclear Association, gli alti costi previsti negli scenari al 2050, abbiano fatto auspicare un intervento dei governi per supportare finanziariamente questa scelta.

La variabile temporale
Parlare del nucleare significa discutere di scenari energetici di lungo periodo.
Per quanto riguarda il nostro paese, considerando il tempo necessario per acquisire il consenso politico, individuare un sito, effettuare la progettazione, ottenere le approvazioni e realizzare l’intervento, non si potrebbe realisticamente avere elettricità nucleare prima del 2020.
E’ significativa la recente dichiarazione del governo della Polonia, paese che come l’Italia aveva bloccato la realizzazione di centrali atomiche nel 1990, di voler riavviare un programma nucleare prevedendo di avere la prima centrale in servizio nel 2021 o 2022.
In Italia un forcing in questa direzione potrebbe garantire fra una quindicina d’anni una produzione elettrica pari al 2% della domanda ed una riduzione delle emissioni di anidride carbonica pari all’1% del totale nazionale.
Certo, la prosecuzione di una politica nucleare porterebbe numeri più significativi nel 2030, a patto però di trovare uno spazio nell’ambito di un parco elettrico nel frattempo fortemente potenziato e sapendo che per quella data saranno disponibili soluzioni economicamente interessanti sul fronte della generazione distribuita.

Rinascita nucleare?
Se il contributo potenziale del nucleare a fronteggiare una eventuale crisi petrolifera determinata dal raggiungimento del picco della produzione di greggio è quasi inesistente, diverso è il discorso rispetto alle drastiche riduzioni di gas climalteranti necessarie nei prossimi decenni per ridurre i rischi del riscaldamento del Pianeta.
Come è noto anche dal mondo ambientalista si è levata qualche voce di ripensamento sul possibile uso del nucleare per fronteggiare l’incubo climatico. Emblematica in questo senso la posizione di James Lovelock lo scienziato inglese che ha elaborato la teoria di Gaia.
Chi prevede un futuro atomico non pensa alle tecnologie esistenti ma a nuove generazioni di reattori, forzando la ricerca sul fronte della sicurezza, puntando a taglie inferiori per garantire più flessibilità e auspicando maggiori controlli per evitare usi bellici. E contemporaneamente si aspetta un segnale chiaro sulla possibilità di smaltire senza rischi le scorie nucleari.
Questo scenario è però più un “wishful thinking” che un percorso credibile dal punto di vista economico, del consenso, dei risultati finali. L’unica certezza è che divorerebbe una enorme quantità di denaro. Si rischia cioè di replicare lo scenario degli scorsi decenni con una distorsione dell’impiego delle risorse pubbliche rispetto ad altre più promettenti soluzioni.

Le possibili risposte alla sfida del clima
Ma esistono soluzioni alternative economicamente più efficaci e in grado di garantire il soddisfacimento della futura domanda di energia mondiale e un dimezzamento delle emissioni climalteranti?
L’aumento dell’efficienza energetica degli usi finali potrà sicuramente dare un contributo maggiore di quanto normalmente si pensi. L’introduzione intelligente delle soluzioni a basso consumo porterebbe inoltre un beneficio notevole all’economia mondiale.
Del resto, gettando uno sguardo all’indietro, si deve riconoscere che gli aumenti del prezzo del petrolio degli anni Settanta sono stati essenziali per aumentare la resilienza del sistema e ridurre l’intensità energetica.
Passando alle soluzioni strategiche sul lato dell’offerta, la scelta si restringe al nucleare nelle sue varie forme, al sequestro nel sottosuolo dell’anidride carbonica proveniente dall’uso dei combustibili fossili e alle fonti rinnovabili.
Delle complesse problematiche aperte sul fronte del nucleare si è detto.
Il sequestro del carbonio contenuto nei combustibili fossili potrebbe consentire di proseguire a lungo l’impiego degli idrocarburi, ma non è senza rischi. Si tratta infatti di una soluzione ancora in fase sperimentale, costosa e con possibili implicazioni ambientali.
Infine ci sono le fonti rinnovabili sempre evocate ma il cui contributo è ancora molto limitato. Potrebbero garantire nel giro dei prossimi decenni quote importanti del fabbisogno energetico mondiale a prezzi accettabili?
Vediamo qualche dato. Dopo un piccolo boom nei primi anni ottanta, con risorse dignitose anche sul fronte della ricerca, le energie verdi sono cadute nell’oblio, complici l’arrivo del reaganismo e il crollo del prezzo del petrolio.
Un nuovo revival si è avuto negli ultimi anni sotto la spinta del “global warming”. Tra il 1995 e il 2004 ad esempio, la potenza eolica installata nel mondo (43.000 MW) è stata del 50% più alta rispetto all’aumento netto della potenza nucleare. Il settore del fotovoltaico è esploso con ritmi di crescita superiori al 30% nell’ultimo decennio e con uno scatto lo scorso anno (+67%) che ha portato per la prima volta a superare la soglia annua dei 1.000 MWp (1.250 MWp di nuova potenza). Nel 2004 il mercato delle nuove energie verdi ha raggiunto i 20 miliardi €, un dato che segnala la fuoriuscita da un mercato di nicchia.
Per soddisfare il Protocollo di Kyoto il loro contributo sarà significativo in alcuni paesi, ma complessivamente limitato. Diversa è la situazione se si proietta lo sguardo al 2030 o al 2050.
In scenari elaborati in diverse sedi (incluse multinazionali energetiche) si considera fattibile una copertura del 50% della domanda di energia primaria entro una cinquantina d’anni.
Sul lungo periodo l’accoppiata solare-idrogeno potrebbe consentire di immaginare uno sviluppo svincolato dalla dipendenza dei combustibili fossili.
In alcuni paesi questa strategia comincia già a delinearsi. In Germania, ad esempio, l’obiettivo al 2050 è di produrre il 65% dell’elettricità e il 50% del calore con energia verde e altrettanto ambiziosi sono i targets fissati per il 2010 ed il 2020.
La riduzione dei costi legata alle curve di apprendimento in un contesto di prezzi crescenti dei combustibili fossili renderà inoltre le tecnologie verdi sempre più appetibili. Questo è particolarmente vero per i paesi in via di sviluppo che non possono certo pensare all’energia nucleare e per i quali le importazioni di petrolio rappresentano e saranno sempre più un terribile cappio che strangola le economie.
In conclusione appare ragionevole puntare su tecnologie che non presentano incognite dal punto di vista ambientale o della sicurezza, di cui si è dimostrata la possibilità di una rapida diffusione sul mercato e che hanno garantito una significativa riduzione dei costi.
Certo questo scenario ha bisogno di una chiara volontà politica e di adeguate risorse economiche per realizzarsi.
Ma proprio per questo, dovendo effettuare delle scelte, non ci sono dubbi che l’accoppiata efficienza energetica e utilizzo delle fonti rinnovabili dovrebbe avere la massima priorità nelle scelte dei decisori pubblici.

Gianni Silvestrini

Direttore scientifico del Kyoto Club

18 aprile 2006

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