La sfida del secolo

  • 3 Aprile 2006

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L'efficienza è una delle scommesse più importanti. La crescita può essere compensata dal risparmio

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di Federico Butera

Qualcuno, per far capire quanto drammatica sia la situazione energetica e ambientale della “navicella spaziale Terra” ci ha paragonato ai passeggeri del Titanic che spensieratamente – allietati da musica, balli e champagne – vanno incontro alla tragedia. Ma il paragone è ingeneroso nei confronti di questi ultimi, perché loro non sapevano che di lì a poco avrebbero incrociato un iceberg, mentre noi sappiamo di stare andando incontro alla catastrofe e facciamo finta di niente.

Eppure non ci vuole molto a capire come stanno le cose, esaminando alcuni dati essenziali.
Il primo riguarda i consumi energetici mondiali: in soli cinquanta anni, dal 1950 al 2000, abbiamo decuplicato la quantità di combustibili fossili che bruciamo nell’atmosfera, con prospettive di aumento ancora più rapido se, come è giusto, i paesi più poveri cercheranno di avvicinarsi al livello di benessere dei paesi industrializzati. La distanza che divide i poveri dai ricchi è enorme. Basti pensare che circa un miliardo e seicento milioni di esseri umani non ha ancora accesso all’energia elettrica e quasi due miliardi e mezzo usa esclusivamente legna, arbusti e sterco animale essiccato per cucinare e riscaldarsi: i loro consumi energetici sono equivalenti a quelli dei contadini di 7000 anni fa, all’inizio della diffusione dell’agricoltura. Il salto che devono fare è enorme, e sono tanti. A questi occorre aggiungere quelli che non sono in condizioni così disperate, ma pure sono ben lontani dal nostro standard di vita, e ad esso giustamente aspirano. Quale può essere l’effetto di un rapido adeguamento di miliardi di poveri al modello di vita dei ricchi paesi industrializzati? Una chiara risposta viene dalla Cina, la cui esplosiva crescita economica ha portato – in un decennio – al raddoppio dei consumi di elettricità e a una triplicazione del numero dei veicoli circolanti. Il settore delle costruzioni si espande al ritmo di circa 1,8 miliardi di metri quadrati all’anno, e tutti questi edifici richiedono energia, termica ed elettrica, per renderli abitabili. La conseguenza è che le valutazioni più caute di incremento dei consumi energetici totali in Cina prevedono circa un raddoppio nel 2020, rispetto al 2000 (con una triplicazione nel solo settore edilizio). E la strada da percorrere è ancora lunga, se si vogliono raggiungere i valori di consumi energetici pro capite giapponesi o europei, che pure sono molto più contenuti di quelli Americani. Eppure, anche con consumi pro capite ancora tanto bassi, la Cina è responsabile del 13% delle emissioni globali di CO2 e della continua crescita del prezzo del petrolio. Non bisogna dimenticare, infatti, che si tratta di un miliardo e trecento milioni di persone.

Ma la Cina non è sola in questo processo di tumultuoso abbandono della povertà. Bisogna aggiungere l’India (un altro miliardo circa di persone) e tutto l’estremo oriente che sta pure rincorrendo il modello di vita occidentale. Più lentamente crescono, ma pure crescono, le economie dei paesi latino-americani.

Il risultato di tutto ciò si trova nelle previsioni della IEA, che stima un quasi raddoppio dei consumi mondiali di energia fra il 2000 e il 2030, dovuto principalmente ai paesi in via di sviluppo1; un raddoppio che, naturalmente, si rifletterà anche nelle emissioni di CO2 nell’atmosfera, con conseguente impatto sull’aumento della temperatura dell’atmosfera terrestre.

Gli effetti di questo aumento sono ormai ben noti: essi vanno dall’innalzamento del livello dei mari allo scioglimento dei ghiacci nelle calotte polari, al rallentamento della Corrente del Golfo. Tutti elementi, questi, che si traducono, per il momento, nella estremizzazione degli eventi climatici e conseguente aumento delle catastrofi, come dimostrato dalla crescita della frequenza degli uragani di categoria più distruttiva e dalle statistiche delle compagnie di assicurazione.

Se le previsioni della IEA (e non solo: anche le compagnie petrolifere fanno previsioni analoghe) dovessero rivelarsi valide, dunque, andremmo incontro alle drammatiche conseguenze del riscaldamento globale. Conseguenze che andrebbero a colpire prima di tutto i più deboli, come sempre e come dimostrato anche nel caso dell’uragano Katrina, pur nel paese più ricco e potente del mondo.

Un vicolo cieco
In questo quadro, però, c’è un aspetto del problema che pochi vogliono prendere in considerazione: è sicuro che la domanda di combustibili fossili che si prevede debba essere soddisfatta nel nostro futuro a medio e lungo termine possa effettivamente essere soddisfatta, in termini di disponibilità fisica e di costo?
Proviamo ad esaminare la questione della disponibilità fisica, dato che quella del costo ne è la conseguenza.

Secondo la BP il rapporto riserve/produzione (R/P) nel 2004 era di 40,5 anni per il petrolio, di 66,7 per il gas e 164 per il carbone. Ciò significa che, anche se la Cina, l’India e tutti gli altri paesi la cui economia è per ora in grande espansione dovessero istantaneamente cessare di crescere, il petrolio durerebbe ancora per 40 anni, il gas per poco più e il carbone per oltre un secolo e mezzo. Ma l’ipotesi di fermare Cina, India e gli altri non è certamente possibile né auspicabile. Ciò significa che il rapporto R/P andrà rapidamente a decrescere nei prossimi anni, e il prezzo del petrolio con la stessa velocità andrà a crescere.

Una nota obbiezione a questa ipotesi è che da anni ormai il rapporto R/P si è attestato su valori non lontani da quelli del 2004, pur essendoci stato un indiscutibile aumento dei consumi, e quindi della produzione. Ciò è dovuto al fatto che nel frattempo si scoprivano nuovi giacimenti o si sviluppavano tecnologie che potevano rendere praticabili altri, con conseguente aumento delle riserve. Vero, ma è anche vero che qualcosa è cambiato negli ultimi anni: la domanda di petrolio e di gas ha superato la scoperta di nuove riserve. Come è pure vero che, per quanto grandi possano continuare ad essere gli investimenti in nuove esplorazioni e nuove tecnologie, non c’è alcun dubbio: sul medio-lungo termine le risorse di petrolio, gas e carbone finiranno. Il che significa, fra l’altro, che stiamo rubando beni non reintegrabili a persone che non possono impedircelo, perché non sono ancora nate. Non c’è azione più esecrabile dell’approfittare di qualcuno che non può difendersi.

A seguito dell’ormai innegabile necessità di applicare quanto meno il principio di cautela nei confronti del cambiamento climatico e della necessità di ridurre il più possibile la dipendenza da fonti in via di esaurimento e a costo crescente, sta aumentando la pressione sull’impiego di energia nucleare e del carbone senza carbonio. Con la prima, infatti – dicono i sostenitori – si elimina a priori il problema delle emissioni di anidride carbonica; con il secondo si ha il vantaggio di potere contare su una fonte relativamente abbondante e che permette di continuare ad usare le tecnologie di conversione energetica correnti.

Il carbone senza carbonio deriva dall’utilizzo del carbone attraverso combustione diretta o previa gassificazione, avendo cura di separare la CO2 e di “sequestrarla”, cioè di impedirne l’immissione nell’atmosfera. La tecnologia che viene proposta per il “sequestro” della CO2 è la sua immissione in giacimenti esausti di petrolio o gas, oppure in strati porosi sotterranei e falde acquifere profonde. Una transizione significativa al carbone comporterebbe la necessità di sequestrare enormi quantità di CO2, esaurendo rapidamente tutti i giacimenti e dando luogo alla formazione di strati sotterranei saturi del gas per migliaia di chilometri quadrati. La tecnologia di sequestro sotterraneo, fra l’altro, è ancora in fase di studio, in quanto non è perfettamente noto cosa potrebbe accadere sul lungo periodo; non si esclude che ci possano essere delle perdite di piccola entità ma continue, di difficile se non impossibile controllo. Anche il rischio sismico va valutato e gran parte dell’Italia, per esempio, potrebbe non essere adatta a tale tipo di tecnologia, in quanto un terremoto potrebbe aprire ampi passaggi per l’anidride carbonica, che così verrebbe immessa rapidamente in atmosfera.

Da non sottovalutare sono pure i costi di tutta l’operazione.
In conclusione, con il sequestro del carbonio si propone una tecnologia che richiede forti investimenti e che lascia a quelli che verranno dopo di noi il rischio di veder affiorare ingenti quantità di anidride carbonica dal sottosuolo; e in cambio di cosa, poi? Della possibilità di rinviare il problema, perché tanto anche il carbone, prima o poi finirà, e anche di questa fonte energetica ci approprieremmo interamente, a danno delle generazioni che verranno. Torna il problema etico.

Resta da esplorare l’opzione nucleare. Opzione che risolverebbe, a detta dei sostenitori, il problema della connessione fra produzione di energia elettrica ed emissioni di anidride carbonica, dato che una centrale nucleare non ne emette.
Per prima cosa va notato che anche – anzi, soprattutto – per il nucleare il problema etico in relazione al nostro comportamento nei confronti delle future generazioni dovrebbe essere l’elemento decisivo della scelta. Il problema delle scorie, infatti, è ancora irrisolto. Sistemarle da qualche parte sottoterra, quando la durata della loro pericolosità è dell’ordine delle migliaia di anni non è certo un bel regalo che lasciamo a chi verrà dopo di noi. A parte questo ci sono anche problemi economici: è stato calcolato che costa di più una tonnellata di emissioni di CO2 evitata mediante un reattore nucleare che una evitata con un parco eolico o con un sistema di cogenerazione. Infine c’è il problema delle riserve. L’uranio, come i combustibili fossili, si trova in giacimenti il cui numero ed estensione è limitato. Il rapporto R/P per l’uranio, al costo attuale di 80 $/kg varia secondo la fonte fra 40 e 60 anni. Ciò significa che se effettivamente si dovesse puntare sul nucleare per risolvere il problema del cambiamento climatico, e il numero di centrali nucleari dovesse significativamente aumentare, le attuali riserve di uranio basterebbero solo per qualche manciata di anni. Naturalmente, se si accetta un costo più elevato, il rapporto R/P aumenta; ma allora le fonti rinnovabili sarebbero nettamente più convenienti. Infine, l’opzione nucleare ne trascina un’altra, quella della proliferazione delle bombe atomiche. L’uso pacifico e quello bellico dell’energia nucleare non sono scindibili.

In conclusione, se il sistema energetico rimane com’è, la domanda sarà quella prevista dalle compagnie petrolifere e dall’Agenzia Internazionale dell’Energia. Questa domanda è insostenibile:

dal punto di vista fisico (esaurimento delle risorse)
dal punto di vista ambientale (cambiamento climatico)
dal punto di vista economico (costo dei combustibili fossili).
Sembrerebbe proprio che, se continuiamo sulla stessa strada che abbiamo percorso fino ad ora, non riusciremo ad arrivare alla fine del secolo, mantenendo lo stesso livello di benessere che abbiamo raggiunto oggi.

Uso razionale dell’energia e fonti rinnovabili
Per fortuna c’è un’altra strada che si apre, quella dell’uso razionale dell’energia e delle fonti rinnovabili; ma è lecito chiedersi: è una strada realistica o si tratta di pura utopia? Vediamo.

Sul piano dell’uso razionale dell’energia i risparmi che si possono ottenere sono enormi, in tutti i settori. In quello industriale – escluse alcune eccezioni – in genere il peso economico dell’energia è quasi irrilevante rispetto ad altri fattori quali il costo del lavoro o delle materie prime. Il fatto che l’energia pesi poco in termini economici non significa che non si tratti di grandi quantità, e ciò nonostante gli sprechi sono spesso clamorosi. Recentemente grandi aziende quali la General Electric hanno annunciato significative riduzioni dei consumi anche nel breve termine; altre sono andate oltre, come la ST Microelectronics che si è posta come obiettivo addirittura una produzione a emissioni zero.

Nel settore dell’edilizia, che pesa in Europa per più del 40% dei consumi totali di energia, si possono ottenere risultati stupefacenti. Basti pensare che il consumo medio per il riscaldamento del parco edilizio europeo è compreso fra 160 e 220 kWh/m2 anno, e che oggi una abitazione che richieda 15 kWh/m2 anno non è più un caso eccezionale. Ridurre i consumi di un fattore 10 non è un’utopia, e la recente direttiva europea sulle prestazioni energetiche degli edifici è un passo concreto in questa direzione. Ciò si ottiene sia progettando o ristrutturando opportunamente l’involucro che utilizzando tecnologie quali il riscaldamento radiante e recuperatori del calore di ventilazione. La riduzione non si limita al riscaldamento: lo stesso può ottenersi per l’illuminazione, sostituendo le lampade a incandescenza – ancora prevalenti nelle nostre abitazioni – con lampade fluorescenti compatte. Si può anche ridurre la domanda di acqua calda utilizzando rubinetti e getti doccia a basso consumo di acqua. Larghissimo, poi, è il potenziale di risparmio di energia elettrica ottenibile mediante una applicazione intelligente (e non orientata al gadget) della domotica. A tutto ciò bisogna aggiungere il contributo della micro-cogenerazione o delle pompe di calore geotermiche. Queste ultime, unite ad una progettazione architettonica appropriata, possono dare un contributo sostanziale alla riduzione dei consumi per il condizionamento, che stanno aumentando vertiginosamente.

Val la pena di osservare che esiste poi tutta una gamma di tecnologie ad alta efficienza energetica che possono essere adottate a scala di quartiere o urbana (per esempio il teleriscaldamento mediante cogenerazione): cosa particolarmente importante per intervenire efficacemente sull’edilizia esistente.
Solo dopo avere ridotto drasticamente la domanda ha senso parlare di fonti energetiche rinnovabili. Sarà allora possibile pensare all’impiego di collettori solari termici non solo per la produzione di acqua calda, ma anche per il riscaldamento e il condizionamento; o ai collettori fotovoltaici; o all’energia eolica sia su grande scala che su piccola (mini-aerogeneratori); o alla biomassa usata direttamente o dopo un processo di gassificazione; o ai biocombustibili, ecc.

L’edificio da consumatore può diventare produttore di energia.
Una osservazione che viene sistematicamente fatta quando si ipotizza un futuro basato sulle fonti rinnovabili è relativa al loro costo, che sarebbe insostenibile al confronto di quello delle fonti tradizionali. Ebbene, se si esclude la produzione di energia elettrica da pannelli fotovoltaici, la maggior parte delle tecnologie di conversione di fonti energetiche rinnovabili è già oggi competitiva rispetto alle tradizionali, se solo si considerano due fattori normalmente nascosti.

Il primo riguarda le sovvenzioni occulte (al cittadino, non a chi le percepisce) di cui godono l’industria del petrolio e, dove esiste, del nucleare. Sovvenzioni che permettono, fra l’altro, di fare fronte agli ingentissimi investimenti nella ricerca di nuove tecnologie per la prospezione e l’estrazione o per migliorare la sicurezza (nel caso del nucleare). Gli investimenti nel settore delle rinnovabili sono ben più bassi.

Il secondo riguarda le cosiddette esternalità. In uno studio finanziato dall’Unione Europea è stato dimostrato che se si tiene conto delle spese ospedaliere, delle ore di lavoro perdute, dei danni all’agricoltura, ecc. che derivano dall’inquinamento dell’aria e del suolo prodotto dalle centrali elettriche, il costo reale del kWh elettrico è ampiamente superiore al costo di produzione dichiarato. Il fatto è che l’extra costo viene pagato dal cittadino su capitoli di spesa differenti: sanità, previdenza sociale, agricoltura, ecc. Tenendo conto di tutto ciò, dimostra lo studio europeo, gran parte delle rinnovabili sono competitive già oggi.

I trasporti e l’idrogeno
Rimane il settore dei trasporti, che assorbe oltre un terzo dei consumi energetici di un paese industrializzato. Qui il problema, più che tecnologico, è politico e culturale. Al di là delle soluzioni ben note che spingono verso il trasporto su rotaia o marittimo al posto di quello su ruote, rimane il tema della mobilità urbana, che è responsabile della maggior parte dei consumi.

La principale responsabilità degli alti consumi energetici della mobilità urbana ricade sulla pianificazione. Da quando si è diffusa l’automobile, la pianificazione urbana si è incentrata sul concetto della “zonizzazione”: c’è un’area della città in cui si dorme, un’altra in cui si lavora, un’altra in cui si va a fare le compre e un’altra in cui ci si distrae. Per andare dall’una all’altra occorre l’automobile. E se invece queste aree fossero almeno parzialmente sovrapposte, limitrofe, non si potrebbe andare al lavoro, a fare le compre o andare al cinema a piedi? Questo è l’approccio su cui si basa l’urbanistica sostenibile.
Resta sempre la necessità di spostarsi per tragitti più lunghi, e non è pensabile che i mezzi pubblici passino, e frequentemente, sotto ogni casa. Un mezzo alternativo all’auto per i percorsi di media lunghezza è la bicicletta. Il problema è che se piove ci si bagna, se fa freddo è sgradevole, così pure se fa caldo. Anche in questo caso ci viene incontro l’urbanistica sostenibile, accoppiata alla tecnologia: percorsi urbani pedonali e ciclabili a clima mitigato, protetti dalla pioggia, dal vento e dal sole, appena riscaldati o raffrescati con tecniche a basso impatto energetico. Non è fantascienza, ci sono già parecchi esempi, sia pure limitati a scale ridotte.

Tutto ciò non risolve la mobilità urbana a più lunga distanza. Per questa c’è il car sharing con auto elettriche, le cui batterie vengono alimentate con elettricità ottenuta da fonti rinnovabili. Si può andare oltre il car sharing tradizionale. Siamo già tecnologicamente capaci di produrre auto in grado di muoversi senza guidatore, a bassa velocità, fin sotto casa (o ufficio, o negozio), grazie al GPS, al radar e a un sistema di telecamere. Una volta che l’auto è arrivata, si entra e si guida fino al luogo di destinazione, dopo avere inserito la carta di credito nell’apposita fessura. Ancora fantascienza? No. A partire dal 1997 automobili capaci di queste prestazioni saranno già sul mercato, con un modesto extra costo, col marchio General Motors. L’obiettivo, per ora, è di lasciare andare l’auto in guida automatica nel traffico intenso, in modo da poter utilizzare il tempo per fare dell’altro, e di aumentare la sicurezza in autostrada.

Rimane infine da risolvere il problema degli spostamenti su lunghe distante, non percorribili, ancora, da un’auto elettrica a batteria. Bene, ci sono già le auto che marciano a biocombustibili. In Germania si stanno diffondendo sempre più le auto diesel alimentate con olio di colza, per esempio (basta un piccolo intervento sul motore tradizionale) e in Brasile da anni sono disponibili sul mercato le auto ad alcool.

Si potrà notare che in questo scenario non si è parlato di idrogeno, e c’è un motivo: questo gas, prodotto con fonti rinnovabili, ha uno spazio meno ampio, in un futuro sostenibile, di quanto non si senta dire negli ultimi tempi. L’auto a idrogeno, quando verrà, non dovrà essere usata per la mobilità urbana, perché la catena di conversioni che va dalla elettrolisi, allo stoccaggio per compressione o liquefazione (altri sistemi sono ancora allo studio), trasporto distribuzione, ristoccaggio nel serbatoio dell’auto e poi alimentazione della cella a combustibile ha un’efficienza complessiva che non supera il 25%. Più di tre volte tanto è l’efficienza di un sistema di accumulo a batterie. Batterie agli ioni di litio, ad alta capacità e basso ingombro, come quelle che ormai sono di serie nelle auto ibride in commercio.

L’idrogeno potrà avere il suo spazio nella mobilità a lunga distanza, se sarà capace di competere con i biocombustibili, nel trasporto aereo e marittimo e nella generazione stazionaria di energia, con celle a combustibile ancora in fase di sviluppo, del tipo a carbonati fusi o a ossidi solidi, al fine di
compensare le fluttuazioni e le discontinuità della produzione energetica derivante dalla fonte solare ed eolica.

Un nuovo paradigma energetico
Da quanto si è detto emerge un sistema energetico molto diverso da quello esistente, caratterizzato da tante unità di produzione alimentate con fonti rinnovabili e fossili (nel transitorio), tutte fra di loro interconnesse e governate da un sofisticato sistema di regolazione e controllo che garantisce il costante adeguamento dell’offerta alla domanda. Un sistema molto più complesso di quello attuale, perché l’energia, elettrica o termica, percorrerà le reti indifferentemente nelle due direzioni, e non in una sola, come oggi.

Il futuro, dunque, non è poi così fosco come sembra, grazie alle fonti energetiche rinnovabili, la cui quantità, secondo alcuni, è largamente sufficiente a coprire le esigenze di oggi e di domani.
D’altra parte hanno pure ragione quelli che sostengono che sole, vento, biomassa ecc. non possono sostituire il petrolio, il gas, il carbone. Questa è vero, se si mantiene l’attuale sistema energetico, che è certamente incompatibile con le fonti rinnovabili, essendosi sviluppato a misura delle fonti fossili.
Il nodo, allora, è la sostituzione dell’attuale sistema energetico con un altro, disegnato per funzionare con le fonti rinnovabili.

La transizione dal fossile al solare – garantendo il mantenimento e il miglioramento degli attuali standard di vita – richiede una rivoluzione tecnologica, sociale, culturale e organizzativa della stessa portata di quella che si verificò nel passaggio dalla società agricola a quella industriale.
È la sfida del nuovo millennio; una sfida in cui lo sviluppo di nuove tecnologie energetiche gioca un ruolo cruciale. Tecnologie per l’uso razionale dell’energia e tecnologie per la conversione delle fonti rinnovabili. Gran parte di queste tecnologie è già disponibile sul mercato, altre sono assai prossime ad esserlo. Prese singolarmente, con l’intento di destinarle alla mera sostituzione di quelle alimentate da fonti fossili, però, non possono portare molto lontano. Occorre integrarle, metterle a sistema, alle diverse scale: da quella dell’apparecchiatura a quella urbana e territoriale. Occorre ripensare le tecnologie di conversione energetica tenendo in sempre maggior conto il secondo principio della termodinamica (il primo ha guidato la rivoluzione industriale) e la natura distribuita della domanda e dell’offerta (da fonte rinnovabile) di energia.

Il nuovo paradigma energetico prefigura decisi interventi in quattro ambiti.
Il primo è quello della ricerca scientifica e tecnologica. Le immense risorse economiche attualmente destinate alla ricerca di innovazioni nel settore petrolifero e nucleare, devono essere trasferite alla ricerca di innovazioni nel settore dell’uso razionale dell’energia e delle fonti rinnovabili.
l secondo è quello industriale, al quale si aprono prospettive di nuovi prodotti da immettere in un mercato ancora vergine, invece di inseguire piccoli miglioramenti incrementali per cercare di sopravvivere in un mercato super affollato.
ll terzo è quello dei servizi. In una società basata sulle fonti rinnovabili e sull’uso razionale dell’energia occorre passare dal principio del possesso a quello dell’accesso: l’utente paga il servizio richiesto (riscaldamento, acqua calda, condizionamento, ecc.), non l’apparecchiatura per ottenerlo, l’energia elettrica e il gas. Sono le società dei servizi energetici a possedere le apparecchiature e a fare da interfaccia con le società di distribuzione dell’energia. Sono le ESCO.

Il quarto è quello della progettazione. Limitandosi al campo dell’edilizia, già oggi è possibile progettare case, quartieri, espansioni urbane in modo da ridurre di parecchie volte la domanda di energia, a parità di comfort, e di soddisfarla in gran parte con fonti rinnovabili. Bisogna sapere come fare e, soprattutto, bisogna che fin dall’inizio venga integrata nel team progettuale una nuova figura professionale, l’esperto di sistemi energetici, che costituisca interfaccia fra architetto e impiantista. È una figura nuova perché deve sapere di climatologia e di termofisica dell’edificio, di illuminotecnica e di impianti di climatizzazione, di uso razionale dell’energia e di tecnologie per la conversione di fonti rinnovabili.

In conclusione, la necessità del superamento di una situazione apparentemente senza uscita può diventare una grande opportunità di sviluppo e di crescita. Ma non dobbiamo dimenticare che “dietro le grandi invenzioni materiali degli ultimi duecento anni non ci fu semplicemente un lungo interno sviluppo di tecniche: ci fu anche un cambiamento di mentalità. Prima che i nuovi processi industriali potessero affermarsi su larga scala fu necessario un riorientamento di desideri, abitudini, idee e obiettivi”. Cioè quella che siamo soliti chiamare “Rivoluzione Industriale”. Rivoluzione, appunto: è quella che deve realizzarsi nel sistema energetico, e non solo in esso, come avvenne oltre due secoli fa.

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